In questi ultimi giorni i temi economici sono al centro dell’attenzione dei media. Per meglio comprenderli e analizzarli abbiamo intervistato il giornalista economico Ugo Bertone e l’inviato del Corriere della Sera Dario Di Vico. Il punto di partenza non può che essere (anche dopo le parole del Presidente della Repubblica di ieri) la manovra correttiva, che si prepara ad affrontare l’iter parlamentare, caratterizzato non solo dalla “contro-manovra” presentata sabato scorso da Pierluigi Bersani, segretario del Partito Democratico, ma anche dalla marea di emendamenti che Pdl e Lega stanno presentando al decreto targato Tremonti.
Una situazione che Di Vico vede positivamente: «Penso che tutte le proposte che sono migliorative, più puntuali e più eque vadano ascoltate, da qualunque parte provengano. Non ci si deve quindi trincerare o chiudere nella difesa del progetto iniziale: tutto il Paese deve capire che ha di fronte un passaggio delicato e occorre quindi dimostrare che le scelte fatte sono le più razionali e le più congrue, anche se non le più piacevoli».
Di diverso avviso Bertone, secondo cui «la raffica di emendamenti anti-Tremonti presentati all’interno del Pdl ricordano da vicino la guerriglia contro il ministro che portò nel 2004 alle sue dimissioni e alla nomina di Domenico Siniscalco. Mi sembra che il copione sia simile». Dall’altra parte, la proposta del Pd «sembra più un’operazione slogan. C’è un’esenzione sull’Irap (che rappresenta un costo), ci sono delle operazioni di stimolo dell’economia a costo zero, ma se si modifica la tassazione delle rendite finanziarie lasciando indenni i Bot e abbassando le aliquote sui conti correnti, non so quale possa essere il gettito finale sperato. Penso che se Visco fosse ancora ministro non sottoscriverebbe una finanziaria di questo tipo».
Del resto, come sottolinea Di Vico, «la manovra era purtroppo inevitabile: l’ha ricordato anche Mario Draghi. Ma rimane un problema più generale: ho l’impressione che con questa manovra noi compriamo del tempo, come con il prestito alla Grecia». Il vero nocciolo della questione è riuscire ad «arrivare a coordinare, come chiesto da più parti (compreso Tremonti), le politiche economiche della zona euro. Non si può avere una moneta comune e politiche economiche diverse. Il tempo “comprato” deve essere usato per elaborare soluzioni a livello europeo di maggior integrazione e programmazione, altrimenti basterà una nuova azione della speculazione per metterci in difficoltà».
E, secondo Bertone, le premesse non sono in tal senso buone: «La situazione della manovra correttiva italiana, rispetto a quella di altri paesi, appare poco chiara. E questo non è un bel segnale per i mercati internazionali. Credo che alla fine il risultato quantitativo verrà raggiunto, ma con un prezzo più alto per quel che riguarda la percezione che il mondo finanziario avrà del nostro paese».
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Ma quale potrebbe essere un segnale forte per i mercati così ultimamente in fibrillazione? Le “paroline magiche” sono “riforme strutturali”, che sembrano diventate un tabù in Italia. Di Vico evidenzia il fatto che «la Banca d’Italia farà addirittura un seminario per capire cosa voglia dire “riforme strutturali”. Andrebbero chiamate con il loro nome (per esempio, previdenza e mercato del lavoro), altrimenti il rischio è che questo termine diventi una scatola dal contenuto misterioso».
Per Bertone una convergenza può essere più facilmente trovata «in materia fiscale. Quello che mi sembra stia mancando sono tagli selettivi alla spesa pubblica. Bisognerebbe studiare una ripartizione diversa degli oneri tra centro e periferia. Su questo penso che l’opposizione e Formigoni abbiano ragione: in questo modo stiamo rinviando all’infinito un’importante riforma strutturale, che è il federalismo».
E in attesa che la politica si muova, stabilendo le priorità di intervento, Di Vico ci ricorda quanto sia importante «sostenere le nostre imprese, che hanno ripreso a vendere all’estero. Questa è una buona notizia». E parlando di imprese non può non venire alla mente il fatto che oggi a Pomigliano d’Arco si terrà il referendum tra i lavoratori riguardo il nuovo contratto proposto da Fiat.
Bertone parte da una premessa non irrilevante: «La scelta “nazionalista” di Fiat ha un forte valore politico, più che economico. Sarebbe stato più logico per Marchionne scegliere di mantenere la produzione fuori dall’Italia per ottenere certi risultati. Certamente, se l’amministratore delegato del Lingotto riuscirà a costruire un sistema efficiente per produrre auto in Italia avrà davvero fatto un miracolo».
Da questo punto di vista, per Di Vico, quindi, «la prima cosa fondamentale è non perdere quei posti di lavoro a Pomigliano, evitare grosse spaccature tra i lavoratori e mettere in moto il progetto di Fiat. Poi potremo ragionare per capire se quel tipo di contratto può essere il primo di una lunga serie di casi o meno». Di sicuro, continua Di Vico, tutta la vicenda «modifica le relazioni industriali in Italia. La vera questione è: le cambia o le “terremota”?». Per dare una risposta occorrerà innanzitutto «“fare bene” Pomigliano, poi si potrà aprire un dibattito per capire quali sono le reali conseguenze sulle relazioni industriali e comprendere meglio se questo caso sarà da considerare un modello o un’eccezione».
Secondo Bertone, le cose dovranno comunque cambiare, «il sindacato dovrà sempre più fare la sua parte nella gestione dei costi eccessivi». E se di modello bisogna parlare, meglio pensare a «Ron Gettelfinger, presidente dello United auto workers, il sindacato che ha reso possibile il salvataggio di Gm e Chrysler attraverso scelte dolorose, ma che hanno permesso alle due aziende di essere ancora in piedi».
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Infine, approfittando della presenza di Di Vico, possiamo anche affrontare un altro tema economico che lo stesso vicedirettore del Corriere ha lanciato sul suo quotidiano: quello del welfare sussidiario. Negli ultimi giorni abbiamo letto gli interventi di Maurizio Sacconi e Tiziano Treu, «una dimostrazione – ci spiega Di Vico – che l’argomento è di grande interesse e di grande attualità, ma anche di grande urgenza. È chiaro che bisogna aprire una riflessione su quali sono le strade del “secondo welfare”. Il problema vero è che non mancano le esperienze sul territorio, anzi ce ne sono tantissime. Manca la conoscenza di queste esperienze, mentre sarebbe interessante studiarne le best practices, quelle che si possono copiare e imitare positivamente».
In effetti, segnala Bertone, abbiamo una situazione, in cui, per esempio nel mercato del lavoro, «da un lato si esalta la flessibilità, dall’altra, per far fronte a una fiscalità che non si abbassa, le imprese ricorrono a manovre straordinarie che sono inique, come il blocco delle assunzioni e il fiorire delle collaborazioni di partite Iva, che in realtà sono rapporti di lavoro subordinati occultati». «Un domani potremmo quindi trovarci nelle condizioni in cui milioni di persone non saranno riuscite a costruirsi una previdenza (pubblica o privata) sufficiente e ci toccherà gestire anche quella situazione con degli strumenti straordinari». Ben venga quindi la possibilità di «garantire alla mano privata un briciolo di intervento in più», ma cerchiamo «altri modi per contenere il costo del lavoro, senza ricorrere alla “legge della giungla”».
L’iniziativa, in questo campo, spetta però, ci ricorda Di Vico, in primo luogo alla società: «La società organizzata può individuare i problemi e sperimentare quelle soluzioni che sono più interessanti e che già oggi hanno dato qualche risultato positivo, anche se solo in sede locale. Potrà così poi preparare un “progetto” più generale, richiamando l’attenzione della politica, ma non può permettersi di aspettarla, dato che questa in Italia fa fatica».
E una dimostrazione di questa fatica e faragginosità potremmo averla presto, per tornare ai temi più scottanti e prima affrontati, dal dibattito parlamentare sulla manovra correttiva del Governo.
(Lorenzo Torrisi)