Il passaggio da 36.000 a 280.000 auto a Pomigliano è decisamente una sfida. Peraltro, anche l’entità degli investimenti che Fiat dichiara di voler realizzare è imponente: operazioni da 700 milioni in tecnologie e processi industriali non si concludono tutti i giorni. Leggendo insieme i due dati, si capisce come ci siano tutti gli elementi per vincere la sfida, se anche l’organizzazione del lavoro sarà adeguata, cioè in grado di rendere la produzione il più possibile fluida e reattiva ai cambiamenti della domanda.
Fluidificare la produzione significa cercare di azzerare le fermate, agendo ove possibile alla fonte: ad esempio, organizzare i turni di lavoro in modo che si abbia un flusso costante di produzione, senza dover accendere o spegnere frequentemente gli impianti (e dunque limitando fortemente guasti, difettosità, cadute di livello qualitativo), oppure articolare le fermate in modo da minimizzare l’impatto sulle linee (pause a fine turno per prolungare il tempo di funzionamento dell’impianto, gestione del massimo numero di lavoratori in pausa per non bloccare la produzione, tempo di pausa idoneo a non rallentare le lavorazioni delle stazioni poste a valle nel flusso produttivo, ecc.). Adeguare la produzione alla domanda significa invece rendere più flessibile l’orario lavorativo, agendo sullo straordinario come “rubinetto” per poter aumentare o ridurre il numero di vetture in uscita.
Ma a monte di tutto questo, la mutata organizzazione del lavoro prevede un’azione decisa su comportamenti opportunistici che, anche se messi in atto da una minoranza, penalizzano la produttività dell’intero stabilimento. Oggi i valori di produzione di Pomigliano sono impietosamente più bassi rispetto a quelli in Polonia non perché i lavoratori polacchi siano dei superuomini, quanto perché pochi comportamenti opportunistici riescono a rallentare l’intero stabilimento. È come andare in montagna in cordata: se qualcuno si fa trascinare invece che camminare al ritmo dei compagni tutta la squadra ne esce penalizzata. Aumentare la velocità è impossibile se la cordata è appesantita, è un obiettivo ambizioso ma raggiungibile se perseguito da tutti con il medesimo sforzo.
Questa operazione di rinnovamento, peraltro, non va valutata solo in riferimento allo stabilimento Fiat. Nell’automotive il peso dell’indotto è rilevante e, come già avvenuto in Giappone con Toyota, le innovazioni in termini di processi industriali sono destinate a essere applicate lungo tutta la filiera. Se poi queste interventi sono di successo, non si vede perché altre imprese non dovrebbero imitare l’esempio. È già accaduto in passato proprio con il modello Toyota, i cui principi sono stati applicati anche in altri settori (dall’elettrodomestico all’elettronica di consumo, ad esempio).
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L’innovazione nella gestione industriale ha quindi alte probabilità di allargarsi rapidamente a macchia d’olio a molte imprese italiane che oggi si trovano di fronte a un grande bivio decisionale: mantenere la produzione in Italia, vicino ai centri di ricerca e sviluppo, oppure spostarla in Paesi a basso costo del lavoro, ma ad alto tasso di crescita dell’economia, cioè vicino ai clienti finali. Per i “favorevoli” all’innovazione questa è un’opportunità per mantenere una cultura industriale (e la relativa ricchezza) nel nostro Paese, gli “oppositori” parlano invece di crisi delle conquiste, in termini di legislazione sul lavoro, ottenute negli ultimi decenni. È la globalizzazione che si ritorce contro chi ne ha fino a oggi goduto i benefici effetti.
Ma è possibile pensare di uscire da una crisi come quella che da anni sta affliggendo il nostro sistema industriale senza fare nessun sacrificio? L’Italia, per di più, ha dimostrato di non essere capace di attirare investimenti stranieri, a differenza di Francia, Olanda, Germania, UK. Un’impresa decide di investire in un Paese se ritiene di poterne trarre beneficio nel medio termine: oggi l’Italia non è attrattiva per le imprese straniere e, se non si rimettono in discussione alcuni vincoli, rischia di non esserlo più neppure per le aziende italiane che continuano a progettare da noi prodotti che devono poi essere venduti in giro per il mondo. Qualsiasi intervento volto a migliorare la produttività è quindi auspicabile non solo per il bene dell’industria automotive, ma per tutto il sistema industriale italiano.
In Polonia gli operai hanno una produttività molto più alta non perché lavorino in condizioni di schiavitù, ma perché hanno un’organizzazione del lavoro coerente con il modello industriale. Se l’obiettivo è la ripresa della produttività, sia gli impianti sia la manodopera devono operare in modo adeguato a raggiungere questo fine. Facendo una similitudine sempre di tipo automobilistico, è impossibile pensare che guidando in città, con continui “stop and go”, un autista al volante di un’autovettura possa ottenere la stessa efficienza di consumo che avrebbe andando in autostrada a velocità costante. Il problema della nostra industria oggi non sta né nel guidatore né nell’automobile, bensì nel creare le condizioni che permettano di mantenere una velocità il più costante possibile. Questa è in sintesi l’essenza del sistema World Class Manufacturing, da cui discendono a cascata le necessità di adeguare gli orari di lavoro, i tre turni, ecc.
Un ultimo punto di riflessione: non bisogna illudersi che basti il World Class Manufacturing (WCM) per risolvere i problemi di un’azienda. È necessario non perdere la capacità di innovare l’offerta, trovare soluzioni e utilizzi innovativi per i prodotti esistenti, coltivare la creatività per avere sempre una domanda da soddisfare. La riorganizzazione industriale è quindi una condizione necessaria per il successo di un’impresa, ma non è sufficiente da sola.