La tentazione più facile è sempre quella di stravincere. E non risparmia nemmeno i migliori. Sergio Marchionne ha vinto a Pomigliano d’Arco, anche se il successo ottenuto non accontenta le sue aspettative. Adesso vorrebbe strafare tagliando completamente fuori la Fiom, se le sue parole hanno un senso.

Cosa vuol dire lavoriamo solo con chi ha detto sì? Significa licenziare tutti gli altri? O far firmare a ogni lavoratore una sorta di capitolazione? Non è chiaro, vedremo gli sviluppi di questo che doveva essere un momento chiave, una svolta, un modello per le relazioni industriali nell’era della Grande Recessione Globale e rischia di trasformarsi in un pasticcio.



Il primo passaggio dovrebbe essere politico. L’isolamento della Fiom può spingere la Cgil a riprendere in mano la situazione e a indurre la federazione metalmeccanici ad accettare il fatto compiuto, magari riservandosi una verifica e una nuova trattativa quando comincerà davvero la produzione.

Marchionne si aspettava un maggior calore del governo, a parte Maurizio Sacconi che lo ha appoggiato fin dall’inizio. Probabilmente la cautela deriva dalla paura che voglia batter cassa, chiedendo un sostegno agli investimenti promessi. In fondo, si può rammentare che lo stabilimento è stato costruito con i soldi dei contribuenti (l’Alfa era di stato) e chi volesse essere perfido potrebbe riaprire l’eterno capitolo del prezzo con il quale l’Alfa Romeo è stata pagata (a rate quinquennali, senza interessi, cominciando cinque anni dopo), oppure i contributi pubblici piovuti nel frattempo.



Ma scurdammece ’o passato, è il futuro che interessa. E allora, montare le Panda tra due anni assicura una prospettiva a Pomigliano d’Arco? O è un modo per prolungare un’inarrestabile agonia. Honi soit qui mal y pense. Si vergogni chi pensa male. Ma val la pena pensarlo per non finire estenuati in una battaglia socialmente importante (salvare posti di lavoro), ma di retroguardia sul piano industriale.

La Fiat sostiene che la Panda saturerà gli impianti per anni, sarà una vettura nuova e dovrebbe andar bene visto il successo di quella precedente. Quindi, anche se Marchionne non è soddisfatto del risultato, non torna indietro. In Polonia, del resto, andranno altri modelli. Ma come tirare avanti con 1.800 persone che hanno detto no, quasi tutti operai, cioè coloro ai quali spetta la produzione?



Ecco, allora, il secondo passaggio da discutere con i sindacati che hanno firmato e rappresentano in ogni caso la maggioranza dei lavoratori. Fonti aziendali non escludono la possibilità di seguire il modello Alitalia: licenziare tutti i dipendenti attuali e creare una nuova compagnia che li riassuma. Tutti? Anche chi ha votato no? È questo il punto di caduta non chiaro.

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La tentazione di Marchionne è forte, per garantirsi il controllo sociale in fabbrica, ma è chiaro che deve evitare una politica di pura discriminazione che lo esporrebbe non solo a proteste o a ricorsi davanti al giudice, ma a un isolamento nell’opinione pubblica. Il manager socialdemocratico, così lo avevano chiamato anni fa, diventa come Valletta, anzi peggio? Dunque il sentiero di quel che è stato chiamato il piano B è stretto e scivoloso.

 

Marchionne vuol fare l’americano (e lo è), ma si comporta da italiano. Intendiamoci, la Fiat ha ragione nella sostanza, ma non nella forma, che conta eccome. La sostanza è che per montare una Panda a Pomigliano e non a Tychy o in Brasile, la vettura deve essere prodotta quanto meno con gli stessi costi e la stessa efficienza. Fiat è sempre più un gruppo mondiale e il libero scambio ha le sue regole. Anche se non è vero che l’economia è liquida, quindi segue la legge dei vasi comunicanti, la concorrenza esiste e mette tutti in vetrina.

 

Dire che gli operai italiani dovranno avere salari come quelli cinesi è pura e pericolosa demagogia. Non si può passare da 1.500 a 90 euro al mese. Del resto, i tedeschi e americani guadagnano almeno il doppio degli italiani senza che l’industria sia meno competitiva. La variabile chiave è la produttività, se sale aumentano anche i salari. Il lavoro al sabato o gli extra straordinari, del resto, verranno compensati e porteranno più soldi in busta paga.

 

Veniamo allora alla forma, che in una vertenza dai chiari connotati politici, si fa sostanza. Esiste un sindacato conflittuale, resistente, che da anni vive senza firmare nessun contratto e pensa di poter continuare così. La Fiat ha detto basta e l’ha messo con le spalle al muro. Il referendum si è svolto in condizioni quanto meno particolari, una delle quali è che l’azienda ha pagato l’intera giornata, nonostante gli operai siano in cassa integrazione. Che senso avrebbe uno showdown adesso?

 

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La Fiom si è chiusa nel suo arrocco convinta che tutto è perduto fuorché l’onore. La Cgil non la pensa allo stesso modo, ma Guglielmo Epifani non ha la forza (e forse ormai nemmeno la voglia visto che in autunno lascia le redini a Susanna Camuso) di aprire un confronto, come è avvenuto in altre fasi storiche: ad esempio, nei primi anni ‘60 quando la Cgil riconobbe che la Cisl, scegliendo la contrattazione articolata, aveva ragione. O dopo la sconfitta alla Fiat nel 1980 che ha ribaltato i rapporti di forza tra sindacati e industriali. Tuttavia, sarebbe stato meglio se Marchionne avesse discusso a carte scoperte non solo con Cisl, Uil e ministro del lavoro.

 

L’ad Fiat lamenta che gli operai italiani non gli concedono lo stesso credito degli operai americani. Dimentica che la Uaw non gli ha firmato un assegno in bianco. La Chrysler è fallita, eppure il sindacato ha difeso i salari (grazie a zio Sam, anzi zio Obama) e ha preso il 51% del pacchetto azionario. L’azienda è cogestita, di qui l’ atteggiamento benevolo del sindacato. Lo stesso non si può dire di Pomigliano né della Fiat. Non vogliamo proporre lo stesso modello, per carità, ma lo scambio, qui, è ineguale. Marchionne se ne rende conto e probabilmente non ha molti margini.

 

Questo sarà un anno duro per la Fiat, le avvisaglie ci sono tutte. Nel 2011 non si prevede un aumento della domanda interna, né altri incentivi. Tutta l’attenzione sarà spostata sulla Chrysler e gli impianti italiani vivranno una fase di transizione e trasformazione. In vista del momento in cui ci sarà una vera ripresa. Per coglierla bisogna essere più efficienti, è interesse di tutti. Proprio per questo è meglio il consenso, faticoso ma duraturo, dell’effimero colpo di mano.

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