La nazione deve prendere atto che è finita un’era. D’ora in poi non si potrà fare più debito. Questo perché il mercato non è più disposto a comprare titoli di Stati che non dimostrano di voler e poter ripagarlo. Poiché il nostro va ben oltre il 100% della ricchezza nazionale prodotta in un anno il mercato vuole, in particolare da noi, una prova che lo ripagheremo. E lo vuole di più dopo che si è accorto che la Germania non ha alcuna intenzione di sostenere i debiti altrui togliendo risorse ai propri cittadini.
Questa volta si fa sul serio. E far sul serio significa: (a) arrivare il prima possibile alla condizione di deficit annuo zero nel bilancio statale in quanto per rendere credibile che l’Italia ripagherà il proprio debito la prima cosa da fare è quello di non farlo crescere; (b) ma anche aumentare la crescita del Pil, perché in una situazione di rigore senza sviluppo ci sarebbe recessione o stagnazione endemica (deflazione), quindi meno gettito e meno capacità di sostenere l’enorme costo della spesa per interessi del debito residuo, cosa che ci porterebbe all’insolvenza ed all’uscita dall’euro. Questo è il nuovo requisito ed implica tagliare la spesa pubblica in modo permanente, al netto dei 12 miliardi ora in discussione, da un minimo di 45 miliardi ad un massimo di 90, a seconda di come andranno Pil, gettito e tassi che influenzano la spesa annua per gli interessi.
Il governo ancora non può dire esattamente quanto proprio perché l’equazione ha molti termini e mancano dati proiettabili con credibilità, per esempio la crescita aiutata dall’export pompato dalla svalutazione dell’euro sta aumentando più del previsto. Ma penso che non voglia anticipare i futuri tagli e le misure di rilancio della crescita, perché questi avrebbero un impatto devastante su un sistema abituato allo spreco ed alle protezioni. Ritengo che sulla stampa dobbiamo anticipare quello che il governo dovrà fare e che non può ora dire, perché bisogna preparare la nazione a gestire un cambiamento totale e non solo qualche taglietto.
Il problema principale è il tempo con cui il bilancio statale dovrà raggiungere la condizione di deficit zero. Al momento l’agenda è determinata dalla decisione della Germania, nel 2009, nel mettere in Costituzione l’obbligo al deficit zero nel 2016, per il bilancio federale, e nel 2020 per quelli degli enti locali.
Clicca >> qui sotto per continuare l’articolo
Ciò è rilevante perché il mercato prenderà queste date come punti di riferimento. Gli Stati più lenti della Germania vedranno aumentare il costo di rifinanziamento periodico dei loro titoli di debito per minore affidabilità comparata. Tale costo potrebbe salire al punto da diventare insostenibile per uno Stato e costringerlo all’insolvenza.
Da un lato, la Germania ha compiuto quasi un atto di guerra nei confronti dei partner facendo così senza consultarli. Dall’altro lo ha fatto e questa è la realtà. E, senza novità, l’Italia dovrà raggiungere sia il deficit zero sia riconfigurare le regole del mercato interno per dargli più potenziale di crescita entro il 2016 o poco dopo, cominciando fin da ora ad essere credibile per tale prospettiva. Se per 12 miliardi di tagli viene fuori un casino come quello che si vede in cronaca, figuriamoci cosa succederà sul piano del consenso quando sarà evidente che per un lustro dovremo tagliare dai 10 ai 20 miliardi all’anno.
La Germania ne ha già annunciati 80, il Regno Unito altrettanti, più una detassazione stimolativa, la Francia 100 e gli altri qualcosa di simile. Appunto, noi non potremo fermarci ai 12 e qualcosa di tagli più altrettanti di recupero di gettito via polizia fiscale. Per prima cosa: che questo sia chiaro. Se lo è, dobbiamo chiederci se è sostenibile e veramente necessario fare in poco tempo una deflazione così intensa dettata dall’agenda tedesca. Da un lato sarebbe utile per cancellare tutta la morchia di spesa inutile, travestita da imbrogliona socialità, e apparati rigonfiati. Inoltre l’impatto deflazionistico sarebbe bilanciabile con più crescita del Pil stimolata da liberalizzazioni vere e ciò sarebbe un risanamento strutturale.
Va anche detto che senza il terrore dell’insolvenza tali cambiamenti non troverebbero fattibilità. Dall’altro è difficile pensare che il sistema italiano incrostato da decenni di parassitismo e protezionismi di tutti i tipi possa sostenere una cura del genere fatta di massimo rigore combinato con riduzione delle protezioni. Cosa fare? Io avrei in mente alternative più sostenibili, ma anche per queste serve un progetto nazionale per rifare l’Italia totalmente. Questo il tema su cui discutere senza fronzoli.