Sono bastati, si fa per dire, i timori per nuove perdite da parte delle banche europee annunciate dalla Bce e la quasi certezza della prossima esplosione della bolla immobiliare cinese, per far scendere le Borse e mandare l’euro ai minimi da quattro anni a questa parte.

Detta così, la situazione spaventa ma non dà l’esatto quadro: la moneta unica, infatti, scenderà certamente sotto quota 1,20 sul dollaro rompendo il punto di resistenza a 1,19, le banche europee stanno per subire uno shock non preventivato nemmeno dagli stress tests – all’acqua di rose – che sono stati effettuati e la Cina è sull’orlo di una crisi che renderà quella dei subprime poco più che un raffreddore.



Ma andiamo con ordine. Dennis Gartman, guru di Wall Street e autore della “Gartman letter” ha una certezza: l’euro scenderà ancora perché i problemi che l’Europa si troverà ad affrontare nel medio termine saranno tutt’altro che semplici da risolvere. «I piani di austerità predisposti giocoforza dai governi, non saranno certo accettati con gioia dai cittadini greci, spagnoli, portoghesi e italiani e questo porterà tensioni che andranno a complicare una situazione già difficile. Prevedo che l’euro avrà un mese pesante davanti a sé, un anno pesante e tempi molto duri nel breve-medio termine. Andare a quota 1,20 o anche sotto contro il dollaro? La vivo come una quasi certezza».



Per Gartman, poi, all’orizzonte ci sono tensioni sul prezzo del petrolio, destinato a scendere ancora «Credo che andrà giù e che questo comincerà a porre un po’ di pressione sul prezzo, con ovvio conseguenze sul dollaro, visto che il 60% del prezzo delle commodities è composto dal biglietto verde. Detto questo, se anche il mercato delle materie prime non è allettante, il mio consiglio resta quello di stare lontani dall’azionario. In qualità di trader professionista, quando vedo l’indice della volatilità, il Vix, superare 35, vedo a coprirmi».

Il Vix, l’altro giorno, ha sfiorato 33: due mesi fa raggiungeva a malapena 18. D’altronde, chi come Gartman opera professionalmente sui listini aveva già messo in conto per il mese di maggio un rally rialzista drogato a livello di intra-correzioni. L’andamento più simile a quello attuale riguardava infatti la seconda metà del 1998, un chiaro caso di bull-market correction: in quel caso le correzioni furono tre e di ampio respiro, una subito dopo la metà di agosto del 4,2%, una nei primi dieci giorni di settembre del 4% e una a fine settembre del 3,5%: tutte superiori al 3%, dati chiari che rendevano l’ongoing correction vissuta nelle scorse settimane una qualcosa di breve e su cui non puntare.



Gli indicatori erano chiari e la crescita continua del Vix ne era la riprova: eppure qualche genio puntava sull’euforia rialzista garantita dal denaro a pioggia della Bce. C’è poi un altro punto decisamente interessante: le banche tedesche, Commerzbank in testa, nei focus interni e per gli investitori, pongono l’ipotesi di default degli Stati periferici europei e la loro uscita dall’euro tra le quattro da porre sotto attenzione.

PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO CLICCA IL PULSANTE >> QUI SOTTO

Ovviamente la prima opzione di risoluzione della crisi è quella infatti operativa, ovvero l’acquisto da parte della Bce dei bond governativi, politica che potrebbe portare a un aumento dell’inflazione e all’abbandono del tetto del 2% di quest’ultima come parametro. Se infatti l’ipotesi della creazione di un eurobond viene vista come molto difficile, visto che l’ombrello offerto ai vari paesi in crisi porterebbe il bund a perdere di centralità e valore, e necessiterebbe di una politica fiscale unica nell’Ue e una cessione pressoché totale di sovranità da parte dei vari Stati, l’opzione del ritorno per i cosiddetti “paesi periferici” alle loro valute precedenti, ovviamente in peg con l’euro, piace perché garantirebbe la nascita di un’unione monetaria forte, formata da paesi più o meno omogenei e non come oggi un patchwork di politiche e gestioni differenti.

 

Scrive Commerzbank: «Il default di membri individuali dell’unione monetaria potrebbe colpire i sistemi finanziari dei questi paesi e potrebbe destabilizzare l’intera unione monetaria come un effetto palla di neve. Non ci aspettiamo che i governi europei vogliano correre un rischio così alto». Non se lo aspettano ma per la prima volta lo metteno, nero su bianco, tra le quattro opzioni di un outlook ufficiale a cura del capo economista, Jorg Kramer. Fin qui, Borsa e moneta comune.

 

E le banche, per cui la Bce ha già parlato ufficialmente di altre perdite pari a 239 miliardi di dollari? Un dato su tutti, relativo al 1° giugno, vi farà capire la reale entità della situazione: il mercato per la vendita di corporate bonds ha chiuso, letteralmente chiuso, per i timori di nuove perdite da parte della banche europee portando gli investitori a concentrarsi unicamente sui bond governativi rifugio. Nessuna compagnia ha emesso bonds negli Stati Uniti l’altro ieri, nessuna, rispetto ai 2,2 miliardi di dollari di controvalore emessi il giorno dopo del Memorial Day dello scorso anno.

 

In Europa, invece, sono stati raggranellati attraverso le sottoscritture soltanto 1,35 miliardi di euro in due vendite di covered bonds contro i 6,5 miliardi dell’anno precedente. Il mercato globale delle emissioni quindi ha fallito miseramente la sua missione di ripartenza, scendendo a 70 miliardi il mese scorso, meno della metà di quanto registrato ad aprile e ai livelli dell’agosto del 2003.

 

«Emissori e banchieri d’investimento sono restii nel chiudere accordi che potrebbero molto facilmente andare male. La verità è che nessuno di noi riesce a leggere e interpretare quale sarà l’ambiente di mercato da un giorno con l’altro e questo porta tutti a operare con enorme cautela», dichiara Lon Erickson, managing director della Thornburg Investment Management.

 

Guardando al mercato dei credit default swaps, le indicazioni non sono certo più rosee. Il costo per proteggere gli emissori europei di bonds dal rischio di default ha toccato il 1° giugno il massimo da tre settimane, stando ai dati ufficiali del Markit iTraxx Financial Index, secondo cui il cds sulle principali 25 banche e assicurazioni europee è salito di 3,5 punti base a quota 177, stando ai prezzi delle 11:10 del 1° di giugno forniti da JPMorgan&Chase a Londra.

 

PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO CLICCA IL PULSANTE >> QUI SOTTO

Non siamo certo al livello del cds di BP, colpita dal disastro ambientale in Louisiana, salito di 52 punti base a quota 220, ma c’è ben poco da stare allegri, anche contando quanto sta accadendo in Spagna con le mancate fusioni tra casse di risparmio e la richiesta da parte di Caja Madrid, seconda banca del paese, di altri 3 miliardi di euro dal fondo di salvataggio governativo per poter portare a termine il merger con le cinque banche regionali che languono.

 

La cifra che Caja Madrid deve rimborsare al governo spagnolo entro il 30 giugno prossimo sale quindi a 102 miliardi di euro. Il default, almeno tecnico, appare dietro l’angolo. Questo ricordando che il 22 maggio scorso Madrid ha dovuto nazionalizzare Caja Sur, una banca di forte matrice cattolica esistente da 146 anni, per strapparla al fallimento per insolvenza: siamo arrivati a questo.

 

E, dulcis in fundo, ecco il fronte cinese, una bolla immobiliare che per Li Daokui, professore alla Tsinghua University e membro del comitato monetario della Banca centrale cinese, «è molto più grave di quella vissuta con i subprime in America prima della crisi finanziaria, poiché combina alla bolla immobiliare che sta per esplodere il detonatore dello scontento sociale».

 

Se a questo uniamo il fatto che i dati manifatturieri del Dragone ci parlano chiaramente di un rallentamento della crescita – l’indice PMI compilato dalla China Federation of Logistics and Purchasing è sceso a 53,9 in maggio dal 55,7 di aprile -, capiamo che da Est potrebbe arrivare un nuovo, combinato fronte di crisi: la Cina sconta sì la bolla, ma anche un aumento del credito e un rallentamento della liquidità, oltre al ritiro delle misure di stimolo fiscale e alle misure poste in essere per scoraggiare la speculazione immobiliare.

 

Certo, un raffreddamento della sovraccaricata crescita cinese può essere un bene per le aziende cinesi che sentiranno meno la pressione dei prezzi grazie al marcato rallentamento della input inflativo, ma il rischio resta alto: se Pechino non riesce a controllare – e in fretta – la scalata dei prezzi, la pentola a pressione rischia davvero di esplodere.