In Italia c’è un grande paradosso: siamo il paese del mondo con il più alto tasso d’imprenditori, ma anche uno di quelli in cui è più difficile fare impresa. Per aprire un’officina meccanica ci vogliono circa 70 permessi e ci sono 22 autorità che controllano. Una legislazione ed una regolamentazione pletoriche e frastagliate rendono difficilissima la nascita e la vita delle imprese. In qualche caso impossibile: se Bill Gates fosse nato in Italia, Microsoft non sarebbe mai nata, perché da noi non si può aprire un’impresa in un garage e se Guglielmo Marconi avesse avuto a che fare con le regole che governano oggi il sistema delle imprese sarebbe finito in galera.
Qual è la causa di questo? Le leggi non nascono mai da un’impostazione casuale, hanno sempre in fondo una radice culturale. All’origine c’è una visione negativa dell’uomo e un sospetto verso la sua iniziativa. Gli imprenditori, secondo questa cultura, sarebbero tutti ladri, evasori, sfruttatori, inquinatori, ecc. per natura. Prima della crisi, abbiamo letto e sentito per anni i guru dell’economia parlare di “anomalia italiana”, di “nanismo” e di “familismo” delle nostre imprese. È anche innegabile che la nostra Costituzione, come ha scritto in diversi interventi Alberto Quadrio Curzio, non sia proprio benevola nei confronti delle imprese, a cominciare dall’articolo 41, quello che Giulio Tremonti ha proposto di modificare. Ecco il testo completo: “L’iniziativa economica privata è libera. Essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da creare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. In questo testo, anche a causa dell’epoca in cui è stato scritto (prima del boom economico), è evidente un sospetto verso chi intraprende.
La proposta di Tremonti va in altra direzione e parte dalla constatazione realistica che la iper-regolamentazione e la iper-burocratizzazione dell’economia sono un nodo gordiano che non si può sciogliere, ma solo tagliare, e quindi non serve una riforma, ma una rivoluzione. È la stessa idea che è alla base della proposta di legge “Norme per la tutela della libertà d’impresa. Statuto delle imprese” che ho proposto insieme ad altri 130 parlamentari, di cui diversi della minoranza ed è attualmente in fase avanzata di discussione nella Commissione Attività produttive.
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Intende operare una doppia “rivoluzione copernicana”. In questo caso, si è scelto la strada di una legge di principi, in grado di prevalere sulle normative specifiche. La prima rivoluzione parte dal riconoscimento, in un’ottica di sussidiarietà, del valore dell’impresa a partire da una visione positiva dell’uomo e della sua iniziativa; pertanto, la si potrebbe sintetizzare col passaggio “dal sospetto alla fiducia”. La seconda prende in prestito una frase del ministro Sacconi all’assemblea di Confartigianato nel 2008 quando ha detto: «abbiamo sempre detto “quello che va bene alla Fiat va bene al paese”, è venuto il momento di dire che quello che va bene ai piccoli va bene al paese». E questo non per ideologia, ma per realismo: perché le grandi imprese sono lo 0,3 per cento del totale, le micro, piccole e medie sono il 99,7 per cento, ma le norme sono sempre state fatte su misura delle grandi imprese.
Alcuni esempi: la legge sulla privacy, e i relativi obblighi, sono gli stessi per Tim e Vodafone come per il negozio di videofonini; la legge sulla sicurezza del lavoro è uguale per la Thyssen come per il carrozziere; la legge sui rifiuti tratta un parrucchiere come un ospedale e un’industria di chimica pesante (per via delle lamette da barba e delle tinture). Il risultato è che i nostri piccoli imprenditori passano più tempo a fare carta che a fare il loro mestiere vero. L’idea dello Statuto delle imprese è di riconoscere diritti a chi finora ha avuto solo doveri. Quindi diritti verso lo Stato e le amministrazioni pubbliche, come la certezza della norma, il silenzio-assenso sistematico, la certificazione privata come sostituto del controllo pubblico, la divisione degli appalti in lotti, perché i piccoli possano accedere. Poi diritti speciali per le micro e piccole imprese e le nuove imprese (in questo è quasi la stessa proposta di Tremonti: per i primi tre anni di vita, far valere solo norme europee, codice civile e codice penale).
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Ancora, diritti verso il fisco, come un limite alla tassazione complessiva che sia inferiore al 45% degli utili, il divieto a introdurre tasse calcolate sui costi o su altre imposte, forme semplificate di corresponsione delle tasse per le piccole imprese (in pratica una tassa unica sostitutiva di Irap, Ires, ecc.), la differenziazione della tassazione degli utili reinvestiti in capitale (umano, fisico e sociale), in innovazione e internazionalizzazione, e un maggior favore per le imprese che operano in rete. Lo Statuto introduce anche un’Agenzia delle micro e piccole imprese, una legge annuale per le MPI e una Commissione parlamentare speciale che abbia il potere di fare l’analisi preventiva dell’impatto delle nuove norme sulle micro, piccole e medie imprese e di prevedere oneri minori e tempi di adeguamenti più lunghi. Infine, prevede che le Regioni possano intervenire in merito, ma solo per concedere condizioni di maggior favore e che le norme in contrasto con lo Statuto siano automaticamente abrogate.
Le uscite di Berlusconi e Tremonti di questi giorni, nel quadro di una crisi che ha dimostrato il valore irrinunciabile dell’economia reale, a cui i giornali (a cominciare dal Corriere della Sera) hanno dato spazio come mai in passato, ma anche la coscienza dei nostri imprenditori del valore delle persone che collaborano con loro, hanno posto in cima all’agenda politica la necessità di operare una vera e grande liberalizzazione. La miglior risposta alla crisi, oltre che tener ferma la barra sui conti pubblici per non cadere nel baratro, è liberare le energie di quei milioni di persone che tutte le mattine “tirano su la cler” e costruiscono il Pil e l’occupazione. Perché per noi essere liberali non significa adorare il mercato (io non adoro il mercato come non adoro lo stato), ma creare un assetto in cui chi ha energie da spendere che vuole costruire il benessere del popolo con la sua libertà e la sua responsabilità possa farlo ed essere sostenuto e premiato.