A volte ritornano. A distanza di un anno e qualche settimana dal primo monito, la Corte europea di Strasburgo ha nuovamento intimato all’Italia di equiparare l’età pensionabile delle dipendenti pubbliche italiane a quella dei loro colleghi uomini, e di farlo subito – non dal 2018, come era stato già stabilito dal governo.
E come l’anno scorso, c’è stato chi è tornato a proporre di subordinare l’accoglimento dell’istanza europea alla stipula di una sorta di patto pariopportunitario: poiché sono le donne a farsi maggiormente carico del lavoro di cura, con le annesse difficoltà di conciliare famiglia e lavoro, i risparmi per le casse dello Stato derivanti dal ritardato pensionamento dovrebbero essere spesi dallo stesso Stato per finanziare servizi di assistenza all’infanzia e alla famiglia.
Denaro, insomma, in cambio di tempo: una versione riveduta e corretta della corrente logica risarcitoria, che a fine carriera concede più tempo alle donne per “ricambiare” le fatiche profuse durante la vita attiva nelle vesti di madri. Ma se l’attuale, apparente “riparazione” non fa che gravare ulteriormente le donne, smessi i panni delle lavoratrici, delle mansioni delle nonne (e in più le priva di anni di contributi preziosi per la maturazione della pensione), la sua versione aggiornata le obbliga di fatto ad essere lavoratrici a tempo pieno e madri a tempo perso, tra un asilo nido e una tata.
E se invece, in cambio di tempo, si concedesse tempo? Se si guarda alle difficoltà femminili nella conciliazione tra famiglia e lavoro, si scopre senza troppa fatica che il tempo resta un fattore chiave, solo parzialmente sostituibile con il denaro. Se è vero che le risorse economiche e le strutture pubbliche sono indispensabili per chi accetta di delegare la cura familiare a terzi, regolarmente stipendiati, la disponibilità di tempo resta invece fondamentale per chi preferirebbe dedicarsi personalmente ai figli e ai parenti, ma è impossibilitato a farlo per l’incompatibilità dei tempi.
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Un’incompatibilità dettata soprattutto dalla vigente organizzazione del lavoro dipendente, tanto pubblico quanto privato: rigida su scala quotidiana – con orari lontani dall’elasticità necessaria a chi divide le giornate tra ufficio, asili o nonni e casa – così come su quella più ampia della vita lavorativa. Chi lavora come dipendente oggi difficilmente accede alla possibilità di fermarsi per qualche anno, ad esempio per occuparsi dei figli nella prima infanzia, senza dimettersi (con la conseguente difficoltà di rientrare nel mercato del lavoro).
Concedere tempo in cambio di tempo significherebbe allora offrire la possibilità di recuperare il tempo del ritardato pensionamento durante la vita lavorativa: usufruendo di un congedo, con durata quantificabile da uno a tre anni, motivato non solo con esigenze di formazione (com’è già oggi in parte reso possibile dalla normativa), ma con il desiderio di dedicarsi personalmente alla propria famiglia.
Naturalmente la stessa facoltà, a fronte delle medesime motivazioni, va riconosciuta tanto ai dipendenti di sesso femminile quanto maschile: non solo per soddisfare la pressante istanza paritaria proveniente dall’Europa, ma per incentivare la partecipazione alla vita familiare da parte di entrambi. Per avere un effetto apprezzabile, infine, l’intervento non dovrebbe limitarsi al settore pubblico, ma, nel quadro di una più generale riforma delle pensioni anche per il settore privato, andrebbe senz’altro proposto anche in quell’ambito.
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Si tratterebbe, insomma, di introdurre una sorta di “anno familiare”: durante il quale il lavoratore (uomo o donna), conservando il posto di lavoro, non percepirebbe la retribuzione, ma continuerebbe a maturare contributi utili ai fini pensionistici. Il tempo trascorso senza stipendio potrebbe essere parzialmente finanziato con un anticipo del TFR, risultando a tutti gli effetti una sorta di “assaggio” della pensione: alleggerendo così l’onere della misura sulle casse pubbliche.
Oltre a non nuocere eccessivamente al bilancio statale, la misura apporterebbe inoltre benefici dal punto di vista della forza lavoro: tenere bassa l’età del pensionamento, com’è attualmente, significa infatti espellere dall’attività individui dalle energie ancora preziose, mentre nello stesso momento si preme per riassorbire in fretta e furia i neogenitori, sottraendoli alla vicinanza dei figli proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno.
Il risultato è che restiamo un paese a crescita zero, con un welfare che guarda solo alla terza età, perché invecchia, e invecchia perché guarda solo alla terza età. Fare i nonni in Italia resta più facile che fare la mamma o il papà: è il naturale frutto di una cultura che, pur dichiarando l’intenzione di sostenere la maternità, in realtà si abbarbica sull’incremento della natalità, salvo poi evitare di fare pienamente i conti con le esigenze dei “risultati” di questo incremento: i figli.
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La flessione delle nascite cela un deficit di genitorialità: per fare una madre e un padre non basta incoraggiare la fertilità, magari costruendo asili nido a tappeto, ma bisogna anzitutto tornare a considerare la dedizione familiare come un valore, consentendo alle donne che lavorano – e agli uomini con loro – di fermarsi il tempo necessario per poter costruire serenamente e gioiosamente la loro famiglia, recuperando lo stesso tempo in seguito.
Al contrario, scambiare volentieri questo prezioso tempo con i fondi destinati ai servizi di assistenza, come vorrebbero taluni, vuol dire persistere nell’ottica secondo la quale allevare, curare, educare un bambino rientra tra i compiti delegabili, in favore delle necessità lavorative (se non di una più piena dedizione a una non meglio precisata “carriera”).
E così, mentre i nonni finiscono, ancora relativamente giovani e sostenuti dallo Stato, a badare ai nipotini – in mancanza di asili nido o di baby sitter, e nella latitanza di una legislazione che intitoli madri e padri a farlo personalmente -, i genitori che lavorano si affrettano a rientrare al lavoro, denegando per dovere o per piacere qualsiasi istanza familiare, e iniziando a sperimentare una corsa contro il tempo che da quotidiana diventa annuale e quindi decennale.
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Solo un deciso intervento sul tempo può interrompere questo circolo vizioso. Non più, com’è attualmente, regalando alle donne qualche anno di anticipo della pensione, come tardivo riconoscimento, o qualche soldo in più per permettersi asili e tate. Ma permettendo a madri e padri che lo vogliano di fare i genitori a tempo debito: invece di abbandonare i figli ancora in fasce nelle braccia di altri, parenti o estranei, fino al momento in cui, ancora abili e vigorosi, saranno costretti a deporre i ferri del mestiere per fare i nonni, e sopperire così alla stessa mancanza che hanno sperimentato personalmente.
Tutto sta a prendere sul serio questa volontà di famiglia, di responsabilità, di cura: ammettere che esista, rispettare la sua forza, evitare di ridurla a una generica lamentela sulla dura vita del genitore lavoratore. Tutto sta a contemplare la possibilità che il compito genitoriale ed educativo non sia un gravame obsoleto, un danno collaterale, un cascame improduttivo da affidare senz’altro a chi non ha (più) di meglio da fare; ma possa rappresentare un desiderio autentico, espresso da chi ritiene che occuparsi dei figli sia quanto di meglio si possa fare nella vita.
Continuare, al contrario, a ragionare solo in termini di denaro, e non anche di tempo, di energie, di affetti, inevitabilmente perpetuerà la situazione efficacemente descritta da John Bowlby, psicanalista britannico padre della teoria dell’attaccamento: “Le forze dell’uomo e della donna impegnate nella produzione dei beni materiali contano come attivo in tutti i nostri indici economici. Le forze dell’uomo e della donna dedicate alla produzione, nella propria casa, di bimbi sani, felici e fiduciosi in se stessi non contano. Abbiamo creato un mondo a rovescio”.