Nei giorni della grande crisi delle Borse, e soprattutto dell’euro, non mancano le buone notizie. L’ultima, in ordine di tempo, riguarda la ripresa degli ordinativi dell’industria tedesca, il primo cliente delle aziende del made in Italy. A maggio, nonostante i bagliori sinistri della crisi greca, gli ordini sono cresciuti del 2,8%, l’opposto delle previsioni che davano un calo dello 0,4% dopo il boom di aprile (+5,1%).
La ripresa del made in Germany, che trova sostegno nella fiducia delle imprese, permette di sperare che il Pil italiano, dopo il balzo dello 0,5% nel primo trimestre, possa consolidare la sua ripresa al giro di boa di metà anno. Certo, il rilancio dell’economia manifatturiera dell’eurozona, di cui la Germania e, in minor misura, l’Italia sono i principali motori, ha una spiegazione non lusinghiera: il calo dell’euro che ha ormai sforato quota 1,20 nei confronti del dollaro e perde colpi anche sulle piazze asiatiche.
Ormai, infatti, bastano poco più di 8 yuan per acquistare un euro contro i 10 di inizio anno. Certo, il recupero è solo parziale. Nel primo trimestre le esportazioni italiane hanno fatturato 79 miliardi di euro, sei in più di un anno fa, ma 20 in meno dell’analogo periodo del 2008. Inoltre, nonostante gli sforzi delle varie missioni orientali, l’export italiano è ancora troppo sbilanciato verso le aree tradizionali dell’Europa e del Nord America (che crescono a ritmi ridotti) piuttosto che sui nuovi mercati: per un euro esportato in Cina, infatti, ce ne sono tre di import. Ma rispetto alla paralisi dell’economia reale del 2009, la svalutazione (che per giunta non si è ancora accompagnata a un aumento dei prezzi delle materie prime in dollari) rappresenta, per ora, una boccata d’ossigeno .
Queste considerazioni, naturalmente, non vogliono minimizzare la gravità della crisi finanziaria che ha investito l’Europa. La crisi greca ha innescato un brutale fenomeno di rimpatrio dei capitali gestiti dai grandi investitori istituzionali. Nel corso del 2009, quando l’economia reale europea viaggiava ai minimi, la zona euro rappresentava il parcheggio ideale per i gestori in fuga dal dollaro.
Si calcola che nel Vecchio Continente siano affluiti allora quasi 1.500 miliardi di dollari, distribuiti in misura proporzionale nel debito pubblico dei vari Paesi dell’euro, anche i più deboli. È stata la stagione ideale dei tesorieri delle banche: presso la Fed o la Bce gli istituti si sono riforniti di denaro a costo quasi zero per investirlo con un discreto margine (dati i quantitativi) sul debito pubblico, senza farsi troppi problemi sull’eventuale rischio di default. E, ricordiamolo, senza alcuna fretta di rifornire di capitali l’economia reale da cui del resto venivano ben poche richieste di denaro per nuovi investimenti.
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Poi venne la crisi greca, e i finanzieri, da Wall Street a Pechino, hanno dovuto ricordare che l’euro non è solo l’espressione della vecchia, rocciosa Bundesbank, ma anche di un po’ della vecchia dracma o della vecchia lira. Di qui una fuga al galoppo che non ascolta ragioni. Certo, prima o poi i mercati si convinceranno che le varie misure di austerità prese ad Atene piuttosto che a Roma o a Madrid (ma anche a Berlino e a Parigi) saranno sufficienti a salvare la moneta unica. Nel frattempo, però, si soffre.
Insomma, l’apparente contraddizione tra un’economia reale che dà segni di vitalità e l’emergenza finanziaria ha una sua spiegazione razionale. Almeno nel breve termine e sotto la pressione dell’emergenza. In prospettiva, al contrario, le due realtà potranno tornare a coincidere.
Purché, assieme al percorso di risanamento delle finanze, non si perda l’occasione offerta dall’euro debole per recuperare terreno sul fronte della produttività e, di riflesso, della competitività del sistema. Di qui l’importanza di un segnale positivo nella vertenza Fiat a Pomigliano.