Nel giro di pochi giorni si sono lette sui giornali due notizie che hanno fatto arrabbiare a dismisura i sostenitori della supremazia del libero mercato su tutto e su tutti, qualunque sia il costo. La più recente di queste notizie riguarda il settore delle telecomunicazioni. Scrive Il Sole24Ore di oggi: “Il governo portoghese ha deciso di fare ricorso alla golden share per impedire alla spagnola Telefonica di acquisire da Portugal Telecom il 50 per cento della holding Brasilcel che ancora non possiede e a sua volta proprietaria del 60 per cento dell’operatore mobile brasiliano Vivo. Insomma quello che Telefonica aveva legittimamente conquistato sul campo è stato vanificato da un artificio giuridico”.



E aggiunge il giornale della Confindustria: “L’8 luglio la Commissione europea dovrebbe dichiarare fuori legge questo strumento (la golden share, appunto, ndr) degli Stati europei retaggio di una politica conservatrice di difesa degli interessi nazionali in settori considerati strategici quali la difesa, l’energia e appunto le tlc”.



È una posizione opinabile. Il governo portoghese ha deciso di difendere un suo asset, vale a dire la partecipazione in una brillante società di telefonia mobile brasiliana. Lo ha fatto perché, senza quella partecipazione, Portugal Telecom si ridurrebbe a un semplice operatore domestico, senza alcuna possibilità di sviluppo. E questo non sarebbe nell’interesse dei portoghesi.

E siccome al governo di Lisbona – guarda un po’ – stanno a cuore soprattutto gli interessi dei portoghesi, è intervenuto per imprimere una svolta a questa partita che finora si era svolta nelle sedi di Telefonica e delle banche d’affari che l’affiancano. Così, se non ci saranno intoppi, il Portogallo continuerà ad avere una presenza nel settore delle tlc, manterrà a Lisbona una stanza dei bottoni importante e in un settore davvero strategico perché produce innovazione. Il che significa, fra l’altro, che crea posti di lavoro qualificati, che dà prospettive a dei giovani sempre più in affanno quando pensano al loro futuro.



Il comportamento del governo portoghese mi pare in questa occasione ineccepibile. L’Italia rischia invece di uscire di qui a poco dal settore delle telecomunicazioni. Telecom Italia, come si sa, ha come principale azionista singolo proprio Telefonica, affiancata da un gruppetto di svogliati partner finanziari (Generali, Mediobanca, Intesa) radunatisi solo per garantire una parvenza di italianità ma pronti a uscire appena si presenti l’occasione.

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Quando succederà, la gran parte dei commentatori economici scriverà articoli entusiastici sul trionfo del mercato e dei sacri principi liberali. E intanto tutte le scelte strategiche delle telecomunicazioni, un know how e una capacità industriali maturati in decenni di esperienza (e superiori a quelli spagnoli) emigreranno a Madrid. E questo sarebbe un fatto positivo? Francamente non mi pare.

 

L’altra notizia che ha scatenato le ire dei liberisti-mercatisi è di un paio di giorni fa. Si tratta dell’intervista che il sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi, ha rilasciato sempre a Il Sole24Ore a proposito dell’ingresso del fondo Aabar Investments di Abu Dhabi al 4,99% nel capitale di UniCredit.

 

Questa operazione ne segue un’altra di segno analogo che aveva portato la Central Bank of Lybia ad acquisire il 4,98% dell’istituto guidato da Alessandro Profumo. Entrambi i nuovi azionisti scavalcano la Fondazione Cariverona nella governance della banca. Di qui l’interesse diretto che la vicenda ha suscitato nel sindaco della città. “UniCredit è patrimonio di questa nazione – ha dichiarato nell’intervista – credo vada difeso. Un governo ha strumenti e modi per far capire il suo peso e l’Italia dovrebbe farlo un po’ più degli altri”.

 

L’Italia invece non lo fa. Il settore bancario, in gran parte, è stato occupato da gruppi stranieri. La Bnl, per lunghissimi anni prima banca italiana, è passata sotto le insegne della Bnp-Paribas che di italiano ha lasciato solo il presidente Luigi Abete (inamovibile come tutti quelli della sua famiglia).

 

Il Crédit Agricole, era azionista (importante e ingombrante) di Intesa e, per buona uscita, ha avuto una fitta rete di sportelli bancari. Risultato: oggi controlla Cariparma, la Cassa di La Spezia e altro ancora. Tanto che è il settimo gruppo bancario italiano. Ottimo affare per i francesi, pessimo per l’Italia.

 

Cariparma, per esempio, è radicata in una delle regioni più industrialmente più vitali d’Italia, un territorio che opera in netta concorrenza (si pensi solo all’alimentare) proprio con i francesi. E chi privilegerà, nel definire dalla sua sede parigina le strategia di sviluppo, la banca verde francese? I simpatici e dinamici emiliani o i suoi clienti-azionisti francesi?