Il tema della “privatizzazione dell’acqua” è balzato agli onori della cronaca, scatenando nell’opinione pubblica interrogativi preoccupati. A scatenare queste reazioni è stata una legge che, secondo i promotori dei referendum abrogativi, vorrebbe svendere ai privati il prezioso oro blu; ma anche l’evidenza di una riforma ancora zoppicante, in cui le tariffe sono quasi ovunque aumentate, ma i promessi miglioramenti ancora si fanno attendere.
Ci vogliono portare via l’acqua? Farla diventare una merce riservata a chi la può pagare, e negata agli altri? Permettere ai soliti furbi di comprare a prezzi di saldo il bene comune e poi rivendercelo a caro prezzo? Chi sta permettendo tutto questo, e perché? L’acqua non è un bene dei cittadini? Non è un diritto? Non è il bene più sacro che possediamo, fonte della nostra vita e materia prima di cui è fatto il nostro corpo? Cosa c’entra la borsa, cosa c’entra il mercato, cosa c’entrano le multinazionali con tutto questo?
Come spesso accade, l’opinione pubblica viene catturata da falsi problemi. È necessario fare un po’ di chiarezza, da un lato, su ciò che il Decreto Ronchi realmente dice. Contrariamente a quanto la gente pensa, anche grazie alle bugie raccontate dai promotori del referendum, il Decreto non comporta affatto alcun “obbligo di privatizzare”.
Esso riguarda semmai le procedure da seguire per l’affidamento della gestione del servizio, non le forme di gestione, che restano le stesse di sempre: impresa pubblica, concessione a privati, società mista. Ed è sempre il comune a scegliere. Solo che, mentre prima l’affidamento all’azienda pubblica avveniva in modo diretto, ora deve passare al vaglio di una gara.
Ma alla gara possono partecipare tutti (anche le imprese al 100% pubbliche). L’autorità pubblica definisce le regole, stabilisce il contenuto di interesse generale del servizio declinandolo nei particolari, valuta le proposte, approva le tariffe. E sceglie il vincitore (con molti margini di discrezionalità, non certo “aprendo le buste”).
La legge concede poi ai comuni che volessero evitare la gare alcune scappatoie; in sostanza, gli si dice che possono conservare l’affidamento diretto a patto che: si dimostri che la gara non porterebbe vantaggi; oppure, che il comune ceda con gara una quota del 40% del capitale, trasformando la gestione diretta in un partenariato; solo per le società quotate, se i comuni, attualmente proprietari del 51% o più, cedono un’ulteriore quota, scendendo sotto il 30%.
Non è un obbligo, quindi, ma un’opzione che i comuni possono seguire se non vogliono fare la gara. Ma perché non dovrebbero farla, poi? Non c’è la minima possibilità che una buona azienda pubblica perda la gara a casa sua. Da cittadino, io mi sento più tutelato se la scelta viene motivata in modo trasparente. Le virtù del pubblico non si possono proclamare in modo apodittico, ma vanno dimostrate con i fatti e con i numeri. Dunque, perché averne paura?
Una volta rassicurati i cittadini sul fatto che la privatizzazione è un’opportunità e non un obbligo, bisogna discutere riguardo ai vantaggi e svantaggi che possono derivare da questa opportunità. Anche in questo caso, circolano leggende secondo cui la privatizzazione rappresenterebbe una mercificazione di un bene fondamentale, una svendita del bene comune ai “mercanti”. Ma si tratta, ancora una volta, di una semplificazione grossolana.
Alcuni pensano: siccome il privato deve fare profitti, le tariffe aumenteranno, e i cittadini pagheranno di più per avere qualcosa che già gli appartiene. È un ragionamento del tutto scorretto. Un conto è “chi gestisce”, un altro “chi paga” (la fiscalità generale o la tariffa). La gente deve sapere che le tariffe aumentano perché i costi che prima erano a carico della fiscalità generale ora devono essere coperti in altro modo, finanziando gli investimenti attraverso il mercato. Chiunque sia il gestore.
La cosa è molto semplice. La città ha bisogno di un idraulico per far funzionare le sue infrastrutture. A volte ce l’ha in casa, a volte no. E dunque, sceglierà la soluzione che reputa più adatta alle sue esigenze, confrontando le opzioni che ha di fronte.
Chiunque sia l’idraulico, servono i pezzi di ricambio, per rinnovare un’infrastruttura vetusta e completare le tante parti che ancora mancano. Costano 60 miliardi di euro. Sono tanti soldi, anche perché negli ultimi 20 anni abbiamo perso tempo in chiacchiere, mentre la rete perdeva pezzi e le direttive europee incalzavano. I nostri fiumi sono ancora lontanissimi dai traguardi europei, mentre nella Senna e nel Tamigi sono tornati i salmoni. Queste sono le emergenze nazionali, altro che l’acquedotto (bene o male, l’acqua nelle case arriva quasi dappertutto).
La finanza pubblica questi soldi non li ha. Il mercato è disposto a darceli, ma pretende di riaverli indietro e vuole interlocutori credibili. Per ottenere credito, qualunque azienda, pubblica o privata non fa differenza, deve coprire i costi con i ricavi, lasciando un margine per ripagare i debiti. Fa qualche decina di euro all’anno pro capite.
Una volta garantito che le gestioni rispettino l’economia aziendale, la proprietà fa poca differenza, così come lo strumento tecnicamente usato per finanziarsi: obbligazioni o mutui, capitale proprio o di terzi.
In questo contesto, la casacca del gestore è un tipico falso problema. Nessuno mette in discussione il fatto che il servizio idrico sia un diritto fondamentale dei cittadini, chiunque sia il gestore. La scelta va fatta valutando quale assetto sia meglio in grado di garantire questo diritto dei cittadini alle condizioni migliori, nel rispetto dell’equilibrio delle aziende e delle garanzie per i finanziatori.
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Le gestioni pubbliche funzionano bene in molti paesi, dagli Usa all’Olanda: ma solo quando funzionano come aziende, coprendo i costi con le tariffe (e infatti le tariffe in questi paesi sono ben più alte delle nostre). Il fatto che le gestioni siano pubbliche non impedisce loro all’occorrenza di attivare forme di partenariato. Ma anche il privato sa funzionare altrettanto bene, se si trova di fronte una controparte pubblica. D’altra parte, troviamo molti esempi di cattiva privatizzazione, come di cattiva gestione pubblica.
Non esistono bacchette magiche e soluzioni migliori in assoluto; ma alcuni paletti vanno messi. Primo: nessun arretramento sul fatto che il servizio idrico è funzionale a un diritto dei cittadini, ed è responsabilità pubblica garantirlo. Secondo, che “diritto all’acqua” non significa “diritto all’acqua gratis”, perché i servizi costano. Terzo, che le aziende funzionano quando fanno le aziende e trattano il servizio idrico per quello che è, ossia un’attività industriale di rilevanza economica, e si organizzano di conseguenza. Quarto, che la proprietà non fa la differenza, mentre la fa, eccome, la qualità del sistema di regolazione, la qualità della partecipazione dei cittadini alle decisioni, la responsabilizzazione piena degli attori, la concorrenzialità tra le soluzioni possibili.
L’esercizio del monopolio della gestione deve essere attentamente sorvegliato e disciplinato dallo stato. È nella debolezza degli istituti regolatori il vero punto debole del Decreto Ronchi, su cui è necessario incalzare il legislatore.
Insomma: nessuno vuole vendere la mamma, come insinuavano i banchetti della campagna referendaria. Semmai, la verità è che verso questa mamma siamo così avari dal negarle pochi spiccioli per rifarsi il guardaroba e curarsi gli acciacchi.
Ben venga il referendum se serve ad aprire un dibattito serio e se stimolerà la costruzione di una legge che permetta alle aziende di funzionare, completando il sistema con una regolazione pubblica forte e autorevole. Guai, invece, se si resterà impantanati nella questione pubblico sì – privato no, o peggio se passerà lo slogan “acqua gratis”.
Dio ci ha donato l’acqua, ma non i tubi. Non è la borsa che va all’acqua attratta dall’oro blu. È semmai l’acqua che va alla borsa, alla disperata ricerca di capitali per finanziare investimenti che non possono attendere ancora a lungo, e che la finanza pubblica non si può permettere.