Nella ricerca di una soluzione alla crisi globale si confrontano oggi due posizioni: quella, rappresentata dal cancelliere tedesco Merkel, che vuole decise azioni di contenimento dei deficit e degli stock di debito pubblici, e quella di chi, in primis gli Stati Uniti, teme che misure troppo restrittive taglino le gambe alla ripresa e, di conseguenza, sostiene la necessità di politiche fiscali espansive per sostenere la crescita.



Ambedue rispondono a preoccupazioni reali ma è come se ci si fermasse solo ad un aspetto, pur importante, del problema. Resta aperta la questione di fondo di quale sia il percorso che permette di ritrovare la strada dello sviluppo. Di certo questo non può passare da scelte che tornino ad alimentare il debito pubblico.



Per l’Italia, che ne ha uno dei più alti, è una via impraticabile. È ben presente a tutti quale sia il peso degli interessi passivi che grava sul bilancio statale. È altresì inutile illudersi che un rilancio dello sviluppo arrivi da un ruolo più pervasivo di uno Stato regolatore, fosse pure illuminato, in campo economico. Ci troveremmo davanti a una forma di statalismo normativo.

Sia il ricorso allo Stato regolatore, che quello al debito pubblico, sono risposte parziali viziate dalla pretesa di escludere la logica del rischio. Logica che è invece all’origine di ogni impresa ed è fattore imprescindibile della spinta a innovare e a migliorarsi. Annullare il rischio promettendo tutele sembra oggi diventato il vero leit motiv.



Spegnere la voglia di intraprendere significa togliere la forza che consente a una società di rinnovarsi e creare ricchezza. E una società viva, non vista come un nemico da cui difendersi, è l’unico traino possibile per lo sviluppo. Purtroppo però questa che dovrebbe essere la vera protagonista è scomparsa dal dibattito economico. Al massimo ci si occupa di un certo tipo di impresa, ma qui parliamo di qualcosa che viene prima, di più profondo. È sintomatico ad esempio che non ci si ponga per nulla il problema del crollo verticale della natalità e delle sue conseguenze non solo sull’economia.

È indispensabile quindi ridare fiducia al mercato, che è il luogo dove le persone possono esprimere al meglio la loro capacità creativa. Dove i vari attori si confrontano e si determina il valore economico di ciò che viene scambiato. Ed è lo stesso mercato che deve trovare il giusto equilibrio fra bene individuale e bene comune. Qui deve giocare, oltre a un sistema di regole chiaro e non demagogico, soprattutto una diversa coscienza e responsabilità degli operatori economici: alla lunga conviene a tutti lavorare tenendo presente l’orizzonte del bene comune che non va visto come un orpello, né tanto meno può essere ridotto a un’enunciazione di principi.

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I danni di certa finanza facile fino a quanto è accaduto nel golfo del Messico debbono pur insegnarci qualcosa. Il vecchio modo di pensare che vedeva nel mercato il luogo degli animal spirits e lo Stato come riparatore e dispensatore a posteriori di giustizia sociale non funziona più. Il mercato e lo Stato si muovono con velocità differenti e quasi sempre un governo da solo non è più in grado di arginare fenomeni patologici.

 

Questa mi sembra perciò l’unica strada per rilanciare lo sviluppo. Le risorse per farlo ci sono. Un grande gruppo come Luxottica alcuni giorni fa ha varato la prima cassa sanitaria per i 7.300 dipendenti inaugurando un sistema di welfare aziendale che collega l’interesse dell’impresa a quello dei lavoratori. A Manerbio, nel bresciano, La Linea Verde, leader nazionale nella preparazione di insalate pronte, ha progettato 140 alloggi per i dipendenti. L’obiettivo è fidelizzarli investendo su di loro e aiutandoli ad affrontare il problema casa, perché sono il vero patrimonio dell’azienda. Due esempi che dicono che la forza per ripartire c’è, e dove essa è riposta.