Quella lettera di Sergio Marchionne con cui il top-manager ha voluto “suggellare” l’intesa riconfermata con i sindacati consenzienti per Pomigliano suona, insieme, come un emozionante appello – veramente “all’americana”, come americano è Marchionne – a fare sviluppo e a lavorare concordi ma anche come un appello, forse involontario, alla politica, affinché torni a svolgere il suo ruolo, ma su scala planetaria, non certo su scala locale, e riscriva le regole della globalizzazione.



Anzi, le scriva da zero, perché sono ancora tutte da scrivere: “Le regole della competizione internazionale non le abbiamo scelte noi e nessuno di noi ha la possibilità di cambiarle, anche se non ci piacciono – ha scritto Marchionne ai suoi collaboratori – L’unica cosa che possiamo scegliere è se stare dentro o fuori dal gioco”.



Sante parole. Drammaticamente vere. Quasi involontariamente rivelatrici: le regole della competizione internazionale non piacciono neanche a lui, lascia intendere, ma non si può disapplicarle. Ha ragione, semplicemente e banalmente ragione. Ma lancia una palla alla politica, appunto un appello a ragionare sulle regole della competizione internazionale…

Quali sono le regole che impongono sacrifici? Perché, dopo decenni di welfare che hanno permesso alle grandi industrie manifatturiere occidentali di eliminare il lavoro notturno, che non è una cosa né bella né sana, si è costretti ad accettarlo di nuovo, per “stare nel gioco”? Sono appunto le non-regole della globalizzazione, la scelta suicida dell’Occidente di adottare i criteri post-medievali di Cina, India e Far East aprendo indiscriminatamente le frontiere al loro “social dumping” alla concorrenza slealissima di chi tiene bassi i costi dei prodotti facendoli produrre dai nuovi schiavi.



Ecco le regole che non piacciono a Marchionne. Lavorare di notte è indispensabile? Ok, si può fare: lo fanno da anni in Polonia, a Tychy, lo faranno anche a Pomigliano. Ma c’è poco da brindare: è un male necessario, un’ingiustizia che non si può respingere e si può solo subire, ma resta tale.

È cinicamente saggio prevedere che quest’appello implicito lanciato da Marchionne alla politica cadrà nel vuoto, per la semplice ragione che non c’è, nella zona del campo dove il manager ha lanciato la sua palla, nessun campione pronto a raccoglierla e a giocarla.

Chi ha voluto quelle regole – anzi: non-regole – oggi è nascosto lontano dalle stanze dei bottoni. Al suo posto c’è un signore con la pelle “abbronzata”, che si sta rivelando più piccolo del compito immane che la storia sembrava affidargli: dopo un anno e mezzo di governo, Barack Obama ha deluso un po’ su tutto.

Travolto dalla crisi economica e finanziaria, l’impero americano non è riuscito a parare tutti i colpi, non sta facendo sognare, si sta rivelando inferiore al ruolo e debole di risorse politiche e culturali. L’amministrazione sta richiamando dalla “riserva” numerosi tecnocratici del precedente periodo repubblicano.

Andarsene dall’Iraq e ridurre l’impegno militare, una chimera; tagliare le unghie ai banchieri rapaci, un sogno; ridare respiro alla produttività e al Pil americano, difficilissimo. È troppo sperare che siano gli Stati Uniti a riscrivere le regole della globalizzazione in un senso più attento ai diritti dell’uomo, più rispettoso delle conquiste del welfare, più sensibile verso le necessità dei meno fortunati?

 

Sì, è proprio troppo. Anche perché la Cina, principale creditrice degli Stati Uniti nonché principale beneficiaria dei “vantaggi” (apparenti sul lungo termine, ma forti nell’immediato) di questa “deregulation” folle che ha condotto all’attuale modello di globalizzazione, non ha alcuna intenzione di cambiare le regole che l’avvantaggiano. L’Europa può prendere l’iniziativa, e per certi temi Sarkozy e la Merkel l’hanno fatto, ma poi l’iniziativa europea si arena nella traversata dell’Atlantico.

 

Allora, di realistico, c’è solo l’attesa che le cose cambino proprio là dove oggi affluiscono i vantaggi della globalizzazione. Che siano i sindacati cinesi a riprendere il filo della civiltà, come sembra che finalmente abbiano iniziato a fare. È la loro mano che deve riscrivere le regole, consapevole di ridurre i vantaggi competitivi, ma decisa a farlo visto che non arrivano nelle tasche dei loro rappresentati, ma si fermano in quelle degli oligarchi.

 

Però, come siamo messi male, noi occidentali: ridotti a sperare che siano i cinesi poveri a difenderci dall’avidità dei cinesi ricchi che abbiamo assecondato e coccolato in ogni modo!

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