Tra i tecnici corre una battuta: “non è credibile che su quasi 800 miliardi annui di spesa pubblica (più del 50% del Pil) sia difficile trovarne una decina da tagliare”. Ma per i politici anche un centesimo è intagliabile. E se lo si taglia allora deve essere ridotta qualche garanzia per la gente. Evidentemente la posizione dei secondi è indifendibile sul piano logico, ma è quella che prevale. Perché?
L’apparato pubblico è cresciuto nei decenni non in base ad un fabbisogno determinato dall’utilità, ma in relazione a criteri anomali, per esempio il vantaggio dei partiti di creare posizioni a salario pubblico per poi gestirne gli accessi in cambio di consenso. L’emergere delle amministrazioni regionali ha, per lo più, seguito il medesimo andazzo. Per decenni la politica ha aumentato la spesa pubblica, incrementando tasse e debito, non in base ad un criterio di impiego razionale del denaro fiscale, ma per motivi ideologici (Stato è bello) o di interesse partitico (minimizzazione dei conflitti nel sistema ingrandendo la torta da spartire) o di scambio posto di lavoro/voto o, perfino, di corruzione (approvazione di un’opera pubblica non perché serva, ma per regalare denari a gruppi di interessi privati che poi ne retrocedevano una parte ai partiti) o per mancanza di controlli perché tanto lo Stato pagava comunque.
Questo disordine non è mai stato seriamente corretto, perché tutti ne potevano ricavare un vantaggio. I partiti, ovviamente, ma anche imprese, la stampa da queste controllata, nonché milioni di persone che percepivano di poter evitare la fatica di un accesso competitivo al mercato mettendosi al servizio di un partito in cambio di una posizione remunerata. E non è tuttora contrastato per gli stessi motivi. Ma c’è una novità.
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Dagli anni ’60 il sistema descritto si è sviluppato grazie alla possibilità di finanziamento a debito. Ora, per i noti motivi, non sarà più possibile fare nuovo debito pubblico e quindi bisognerà tagliare decine di miliardi nella spesa annua. Ma la politica sta reagendo a questo nuovo vincolo non cercando di cambiare il modello partitocentrico dell’amministrazione pubblica, ma tentando di limarlo affinché possa restare così come è, solo un po’ meno ricco.
Questo è il vero motivo per cui risulta tanto difficile tagliare una manciata di miliardi. Per cogliere il punto vediamo l’alternativa. Immaginiamo un gruppo di lavoro con la missione di ridisegnare le funzioni di Stato, Regioni, Comuni e relativi servizi in base ad un criterio di utilità ed efficienza. Per prima cosa emergerebbe che, nell’era dei computer, il sistema pubblico potrebbe essere gestito benissimo da metà dei dipendenti attuali. Per seconda, l’inutilità di tanti enti sia pubblici, come le comunità montane o le circoscrizioni con personale eletto e simili, sia a gestione pubblica come le municipalizzate, gli enti di sviluppo, ecc. Per terza, che invece di dare sovvenzioni statali o regionali ad alcune imprese sarebbe meglio usare la stessa cifra (vicina ai 30 miliardi) per ridurre le tasse a tutte. Per quarta, che la spesa sanitaria è incrostata da almeno un 25% di sprechi che se fossero tolti non cambierebbero la qualità del servizio. Per quinta, che i Comuni, paradossalmente, hanno meno risorse, in media, di quelle necessarie per una buona gestione della qualità del territorio.
In sintesi, chiunque faccia una calcolo di razionalità ed efficienza troverebbe che dai 150 ai 200 miliardi di spesa, su quasi 800, sono inutili e gran parte del resto mal allocato. Traete voi lettori le conseguenze, anche esercizio per valutare il futuro federalismo fiscale.
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