Per quanto riguarda le liberalizzazioni, l’Italia resta ancora al palo. È questo quanto emerge dall’Indice delle Liberalizzazioni 2010, presentato ieri dall’Istituto Bruno Leoni. Per il quarto anno consecutivo è stato studiato il grado di apertura a nuovi concorrenti di alcuni settori chiave dell’economia italiana, in comparazione con quelli dei paesi europei considerati come veri e propri riferimenti. Fatta 100 l’eccellenza, l’Italia si attesta a 49, con una picco di 71 nel mercato elettrico e un crollo a 17 nei servizi idrici. Il risultato complessivo è in linea con le rilevazioni degli anni precedenti (48 nel 2007, 47 nel 2009 e 50 nel 2009). Per meglio comprendere i risultati di questo rapporto sulla nostra economia (al passo coi tempi, dato che da quest’anno è fruibile anche su iPad e Kindle), abbiamo intervistato Alberto Mingardi, Direttore dell’Istituto Bruno Leoni.



L’indice complessivo di liberalizzazione dell’Italia sembra essere stabile da quando è iniziata la vostra misurazione. Questo dato va letto come immobilismo completo oppure qualcosa si è comunque mosso?

Distinguiamo. Il dato aggregato dell’insieme dei settori passati in rassegna sembra restituirci un’impressione di immobilismo. Questo è la conseguenza del fatto che non c’è stata, da che il nostro Istituto ha aperto il cantiere perenne del suo Indice delle Liberalizzazioni, una scelta politica forte a favore delle liberalizzazioni: non si sono messi in moto processi che potessero aprire in modo significativo il mercato alla concorrenza, sulla base di un approccio unitario e convinto da parte del governo. È mancata “l’esplosione atomica”, ma non sono mancati i cambiamenti. Talora in meglio, talora in peggio. Alcuni settori, come il mercato elettrico, hanno conosciuto un progressivo miglioramento; altri sono stabili e altri ancora, come il trasporto ferroviario, hanno avuto un deciso peggioramento.



Il settore più promettente resta quello del mercato elettrico. Come mai?

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Per quel che riguarda il settore elettrico, il miglioramento è ancora figlio delle buone scelte compiute dieci anni fa, all’inizio del percorso di liberalizzazione, e poi più avanti con la completa separazione della rete di trasmissione nazionale dall’ex monopolista. Nel nostro Indice si osserva come la definizione di regole appropriate e la loro relativa stabilità abbiano spinto gli attori economici a “prendere confidenza”col contesto liberalizzato e, dunque, ad accrescere l’efficacia delle istituzioni.



 

Perché invece un calo così improvviso nel settore dei servizi idrici (tra l’altro nell’anno del Decreto Ronchi e della raccolta firma per il referendum abrogativo)?

 

In questo caso siamo più che altro in presenza di un’illusione ottica: il nostro indice confronta l’Italia col paese più liberalizzato d’Europa, che nel caso dell’acqua è il Regno Unito. Quel Paese ha messo in atto una serie di riforme quasi rivoluzionarie, che – in termini relativi – “schiacciano” verso il basso la realtà italiana. Va detto, comunque, che il decreto Ronchi è stato approvato alla fine del 2009, e ancora mancano i regolamenti attuativi, quindi è impossibile, per ora, coglierne le conseguenze concrete, sebbene esso si muova indubbiamente nella direzione giusta.

 

La crisi economica si è fatta risentire anche sul grado di liberalizzazione?

 

Nell’edizione 2010 non risentiamo ancora, in maniera sostanziale, dell’effetto crisi. Infatti, i dati su cui il nostro team di ricerca lavora diventano disponibili generalmente con uno o due anni di ritardo, e quindi spesso si riferiscono al 2008. In un solo caso la crisi si è “vista”, nel nostro indice, ma paradossalmente in senso favorevole all’Italia: l’impatto delle misure anticrisi sul fisco, in Gran Bretagna, è stato assai pronunciato che da noi, determinando un aumento apparente del nostro grado di libertà fiscale. Si tratta di un fenomeno uguale e contrario a quello dei servizi idrici.

 

L’Italia sta perdendo terreno, nel campo delle liberalizzazioni, rispetto agli altri paesi europei? E l’Europa può aiutarci ad avere più mercato?

 

Non stiamo perdendo terreno in senso assoluto: tant’è che il livello di liberalizzazione totale è sostanzialmente costante. In alcuni casi la situazione migliora, in altri peggiora. Credo che questo sia il classico caso in cui non dovremmo aspettare Godot o l’Europa, ma rimboccarci le maniche da soli. 

 

Sono trascorsi più di due anni dall’insediamento dell’attuale governo, che sembrava promettere più mercato. È stato poi così?

 

Non mi sembra che l’attuale governo abbia disatteso grandi promesse, in fatto di liberalizzazione dell’economia. È anzi stato eletto su una piattaforma che era a tratti schiettamente protezionista: pensiamo solo al salvataggio di Alitalia. In due ambiti, il governo si è sicuramente mosso nella direzione di un alleggerimento del peso dello Stato e della regolamentazione: il mercato del lavoro (dove si è rimediato alla “contro-riforma” della legge Biagi attuata dall’esecutivo precedente) e la riforma della pubblica amministrazione. Il Decreto Ronchi va nella direzione giusta, ed è andato ad incidere su una questione che pareva destinata a rimanere eternamente irrisolta come quella dei servizi pubblici locali. Su altri dossier (la privatizzazione di Tirrenia), ad esempio, il governo sicuramente non ha preso una posizione “mercatista”. Rispetto al vocabolario politico di questo esecutivo, le cose poi sono molto cambiate, in appena pochi mesi.

 

In che senso?

 

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Alcuni Ministri sono passati dalla difesa acritica di alcuni dei settori più impermeabili alla competizione dell’economia italiana (esaltati come bastione di una “sana diversità” rispetto alle economie “anglosassoni” finite nel baratro della crisi), a una serie di promesse importanti in fatto di semplificazione della vita economica. In un quadro politico così instabile come quello in cui siamo, non stupisce che anche le posizioni in fatto di politica economica si scoprano così fluide.

 

Il Partito democratico ha recentemente presentato un pacchetto di liberalizzazioni. Come le giudicate?

 

Alcune delle proposte del Pd andrebbero davvero nella direzione giusta, come la separazione proprietaria della rete gas dall’Eni o l’ulteriore liberalizzazione delle professioni. Altre – come gli interventi sulle banche o sulla distribuzione dei carburanti – si ispirano a una visione molto comune a sinistra, per cui anziché investire sulla libertà economica bisognerebbe colpire i “produttori” a vantaggio dei “consumatori”. Di liberalizzatori coerenti, oggi, nella politica italiana non ve ne sono. A sinistra come a destra. 

 

Parliamo un attimo di privatizzazioni. In Italia se ne potrebbero fare ancora, ma sembra esserci la possibilità che avvengano solo con un passaggio di proprietà “patriottico”. Questo è un bene o un male?

Il senso di una privatizzazione è mettere un’azienda nelle mani di chi è più bravo a sfruttarne gli asset, per produrre valore. Questo va non solo a beneficio delle casse dello Stato, ma soprattutto dell’innovazione imprenditoriale e dei consumatori tutti, nel medio periodo. Privatizzare guardando al passaporto ci ha portato spesso a creare soluzioni disfunzionali, oltre che paradossali.

 

Ha in mente qualche esempio?

 

Pensiamo a un’azienda come Telecom, privata ma in qualche maniera non cedibile a compratori stranieri: e anche per questo ancor oggi impropriamente sottoposta alle interferenze della politica e impossibilitata a fare scelte di rottura. Per tornare alla domanda precedente, in linea di massima, il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie. E questo vale anche per il patriottismo economico. Quando si parla di aziende, le scelte “colbertiste” finiscono per unire in modo sorprendentemente puntuale “amor di patria” e interessi di imprenditori contigui al potere politico.

 

(Lorenzo Torrisi)