Fortuna che stavano bene, erano ben capitalizzate e non temono gli stress tests! Diverse banche europee, infatti, stanno discutendo della creazione di un fondo privato da 20 miliardi di euro per salvare altri istituti di credito nel caso di un’altra crisi finanziaria. E chi ha lanciato l’iniziativa? L’amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, autore di un editoriale sull’argomento sul Financial Times di ieri.



Il fondo, spiega Profumo, interverrebbe solo con il via libera delle autorità europee e «provvederebbe specifiche garanzie per sostenere le banche in difficoltà a emettere obbligazioni bancarie garantite». Del progetto, precisa il quotidiano londinese, l’amministratore delegato di Unicredit ha già discusso con altre banche europee, tra cui Deutsche Bank e Santander, e proseguirà i contatti in queste settimane: «Con contributi volontari da parte delle grandi banche internazionali europee – diciamo le prime 20 – un fondo di salvataggio europeo potrebbe accumulare una significativa quantità di capitale di rischio (20 miliardi di euro) in pochi anni».



Se nella recente crisi finanziaria «fosse stato disponibile il giusto strumento, i governi avrebbero evitato lo sconvolgimento delle proprie finanze e la reputazione di banche solide non avrebbe sofferto», scriveva Profumo. «Per le autorità l’opzione di usare un fondo per stabilizzare una o alcune grandi banche in difficoltà, assicurerebbe al mercato che la crisi potrebbe essere contenuta a un primo stadio», aggiunge Profumo, precisando che il fondo non richiederebbe un contributo da parte degli Stati membri o delle autorità europee.

Il banchiere boccia invece l’ipotesi di una tassa per recuperare il denaro pubblico speso nel salvataggio delle banche, che – dice sempre Profumo – «sarebbe ingiusta per quelle banche che non hanno ricevuto nessun aiuto». Inoltre una simile leva implicherebbe «una grande quantità di risorse: dal 2% al 4% del Pil secondo le stime dell’Fmi, che inevitabilmente colpirebbero la ripresa e la crescita». Insomma, nessuno esclude nuove crisi. Anzi, si mettono le mani avanti per evitare che la prossima possa colpire ancor più duramente delle prime due.



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E anche l’Ue si muove con un piano a tutela del risparmiatore, che non deve perdere nemmeno un euro o subire perdite minime dal crack di una banca, sempre più probabile anche se nessuno vuole ammetterlo per non scatenare ulteriore instabilità sui mercati. È questo il principio di base che ispira la normativa presentata dal commissario Ue al Mercato interno, Michel Barnier, che rafforza le garanzie per i titolari di depositi bancari e riduce il rischio perdite per chi si affida a una società di investimenti: il pacchetto di misure alza anche il livello di protezione dei consumatori di fronte al caso di insolvenza di una compagnia di assicurazioni.

 

Tra le misure introdotte, l’innalzamento a 100mila euro del livello minimo di garanzie, una maggiore rapidità per i rimborsi (7 giorni), meno formalità amministrative e migliori informazioni: in Italia la garanzia prevista dalla legge è comunque già superiore, arriva infatti a 103.291,38 euro, i “vecchi” 200 milioni di lire. Insomma, con colpevole ritardo di almeno un anno e mezzo qualcosa sembra muoversi: meglio tardi che mai.

 

Il problema è che l’Europa opera unita ma, nei fatti, è più che mai divisa. La Germania, infatti, grazie all’euro debole sta facendo nei nostri confronti e in quelli di Francia e Spagna quanto la Cina ha fatto con il resto del mondo mantenendo basso il tasso di cambio: ne ha il diritto, inutile stare a recriminare. Non è colpa dei tedeschi se il loro tasso di disoccupazione continua a scendere da 12 mesi di fila e ora si è assestato al 7,5% contro il 20% della Spagna: un gap enorme venutosi a creare negli ultimi due anni e che ci dimostra come ormai la zona euro sia solo un concetto formale, colpita come è stata dall’effetto rallentato della disciplina salariale tedesca degli ultimi anni.

 

Per Hans Werner Sinn dell’IFO Institute, «la Germania è la vera vincitrice della crisi», mentre la Spagna, stando al giudizio di RR de Acuna, sta per pagare il prezzo del crash immobiliare appena cominciato, con 1,6 milioni di unità immobiliari in overhang. L’euro debole, inoltre, ha salvato alcuni settori strategici dell’industria tedesca come quella dei pannelli solari, per mesi e mesi a rischio di essere annichilita dalla concorrenza cinese: il fatto è che l’effetto beneficio dell’euro debole sta agendo in modo asimmetrico, funziona per la Germania, molto meno per la Spagna, che necessiterebbe di un euro a 80 cents per potere respirare un minimo.

 

È l’immagine al rovescio del 2008 quando i falchi della Bce portarono l’euro ad apprezzarsi a 1,60 sul dollaro, una scelta che colpì duramente l’output industriale in Germania e molto meno in Spagna e Francia. Inoltre la Germania punta su prodotti per consumatori ricchi, una categoria che sta molto meglio ora che due anni fa: il mese di giugno scorso è stato il migliore di sempre per la Mercedes, la cui vendite negli Usa sono salite del 25% rispetto a maggio. Il modello S-Class ha registrato un aumento del 106%.

 

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Il rischio è quindi quello di un aumento del gap tra Nord e Sud Europa più veloce del possibile effetto traino di politiche coordinate di stimolo: negli Usa il coefficiente Gini che misure le disuguaglianze salariali è vicino al picco massimo di sempre per un paese occidentale, in Europa potremmo vivere una situazione ancor peggiore. Anche perché i membri tedeschi della Bce sono tutt’altro che inclini a far favori al cosiddetto Club Med: per il falco Stark, «se la situazione dovesse migliorare ulteriormente (sigh, ndr) non vedo la necessità di proseguire con il programma di acquisto di bond greci».

 

Se così sarà, la Spagna sprofonderà nella depressione totale. Il World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale parla chiaro: i surplus di Germania, Cina e Giappone cresceranno dai 586 miliardi di dollari dello scorso anno a 758 nel 2015, perpetuando gli squilibri che hanno portato, nei fatti, alle crisi finanziarie.

 

Non è un caso, quindi, che gli economisti di Capital Economics abbiamo scritto nel loro report di venerdì scorso che «è molto più probabile la frattura dell’eurozona che la sua sopravvivenza. Indebitamento, competitività e la debolezza economica strutturale uniti all’ansietà dei mercati per la situazione dei debiti sovrani stanno creando non pochi problemi e per noi sono motivi di seria preoccupazione. Ci sono varie opzioni per la nuova struttura dell’eurozona: l’abbandono volontario di un paese come la Grecia oppure il fatto che sia l’Ue a espellerla. Oppure ancora più paesi che decidono di andarsene, oppure ancora l’opzione di una Germania che decide di andarsene oppure una frattura, uno split tra euro del Sud e del Nord», scrive Julian Jessop, capo analista internazionale, nell’outlook agli investitori.

 

«Le possibilità di un mutamento dell’attuale scenario euro sono salite oltre il 50%, resta incerto il timing. Stando alle nostre valutazioni, la pressione dovrà salire per altri due, tre anni per raggiungere il punto di rottura, ma un’accelerazione è tutt’altro che da scartare a priori come ipotesi». Per gli analisti di Credit Suisse, «i veri stress tests saranno quelli che misureranno la prontezza di reazione dei vari governi europei». A cosa? Semplice, sia le Landsbank tedesche che le cajas, le casse di risparmio spagnole, hanno esposizioni pesanti ai bonds di Grecia, Spagna e Portogallo: «I mercati vogliono essere rassicurati ma senza dettagli riguardo i criteri di valutazione degli stress tests, un qualcosa di assolutamente senza senso, l’incertezza è destinata a crescere», dichiarava ieri a Cnbc Daniel Gros, direttore del Centre for European Policy Studies.

 

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Per Nomura, i rischi di perdita per le banche, globalmente parlando, ammontano a 900 miliardi di dollari se si attuerà il cosiddetto “worst case scenario”, ovvero il fatto che Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna dovessero ristrutturare il loro debito. Difficile che accada ma tutto questo attivismo attorno al settore bancario, proposta di Profumo in testa, parla la lingua di una situazione tutt’altro che tranquilla.

 

Inserita, poi, in un quadro di totale disunione europea a guida tedesca, il primo paese preoccupato per la questione bancaria con 600 miliardi di euro di liabilities negli assets e le Landesbank sull’orlo del collasso.

 

P.S. Segnalo volentieri, per chi mi definisce “catastrofista” rispetto alla situazione devastante degli Stati Uniti, questo articolo pubblicato ieri pomeriggio da Cnbc (http://www.cnbc.com/id/38205194). Ammetto di non essere una persona ottimista a oltranza per quanto riguarda la situazione economica globale, ma, come potete leggere, sono in buona compagnia.