Ha ragione la Telecom a sostenere che i tagli che dovrebbero essere effettuati entro giugno dell’anno prossimo erano previsti e che i 3.700 che dovrebbero lasciare l’azienda fanno parte di un piano che comprende circa 7mila lavoratori in meno da qui al 2012. Però è difficile non inquadrare questa accelerazione del programma di Telecom all’esterno della grave tensione tra l’azienda e il governo.



Il punto di rottura riguarda la rete ad alta velocità. Telecom ne possiede una che è la più estesa d’Italia e, ovviamente, ne rivendica la proprietà in quanto costruita ex novo, non con i soldi del canone che, nel corso degli anni hanno finanziato la realizzazione della rete in rame, ma con cash flow generato dall’attività aziendale. Il governo, e il viceministro Paolo Romani in particolare, sostiene, invece, il progetto di una rete in fibra ottica di proprietà di tutti gli operatori alternativi più Telecom che a questa nuova società dovrebbe apportare la sua rete. Lo scontro su questo punto è durissimo per due motivi almeno.



Il primo è che il governo aveva stanziato per lo sviluppo della rete in fibra ottica circa 800 milioni di euro, almeno tre volte meno gli investimenti che il rapporto di Francesco Caio dell’anno scorso aveva individuato come necessario per far recuperare all’Italia il gap con il resto degli altri Paesi europei.

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Fino a quando l’empasse non si risolverà, quei soldi (se ci sono ancora, visto che nelle pieghe della manovra di aggiustamento nessuno ne parla più) non possono essere spesi se non nel sostegno alla domanda (incentivi agli utenti) dai discutibilissimi effetti concreti. Il secondo motivo è che i concorrenti non sono in grado di finanziarsi da soli lo sviluppo di una capillare rete in fibra ottica che possa fare concorrenza a quella di Telecom. Significa, quindi, che ogni volta che un loro cliente usa la fibra loro devono affittarla da Telecom ingrassandone i profitti. D’altra parte anche Telecom non ha la capacità finanziaria di fare i sostanziosi investimenti che sarebbero necessari.



 

Di fronte al pressing del governo perché Telecom acconsenta a studiare la forma per mettere in comune con i suoi concorrenti la propria infrastruttura all’interno di una società esterna, partecipata magari da qualche società di investimenti di derivazione pubblica, la società ha deciso di reagire e di far presente cosa vorrebbe significare, in termini occupazionali la cessione del suo gioiello.

 

In questo senso va anche interpretata la durissima presa di posizione del ministro del Welfare Maurizio Sacconi che ha reagito all’annuncio (previsto) in modo ben diverso da come aveva reagito nella vicenda Pomigliano. Significa che il messaggio è stato ricevuto, ma anche che su Telecom la battaglia non è più industriale, ma tutta politica.

 

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