Le radici di una rara malattia
In poche altre occasioni sentirete un convinto assertore dei free markets sostenere – contrariamente a quanto si sta leggendo sui giornali nelle ultime settimane, quando si sente parlare di austerità fiscale – che questa volta “lo Stato deve intervenire tornando a spendere”.
Sì, avete compreso bene: un fermo sostenitore del libero mercato vi sta dicendo che abbiamo bisogno di più spesa pubblica. È un’ammissione di sconfitta? Si tratta forse di una paradossale eresia?
No di certo. Più semplicemente è la presa di coscienza di una “malattia” dell’economia sinora mai veramente compresa, passata spesso in sordina – soprattutto a causa dello schiacciamento dell’informazione su un’agenda banale e limitata – e la cui medicina è da prendere certamente tappandosi il naso.
Ma cerchiamo innanzitutto di comprendere quale sia questa malattia, e poi vedremo di capire perché la soluzione – come sostiene anche il premio Nobel Paul Krugman- potrebbe essere maggiore spesa pubblica.
Immaginate un mondo in cui imprese e famiglie decidono razionalmente d’indebitarsi. I bassi tassi d’interesse – forzatamente bassi, per via di politiche monetarie espansive messe in atto dalle banche centrali – sono una ghiotta opportunità per fare tantissime cose. Ed essendo il tasso d’interesse il “prezzo” del denaro, l’informazione che il mercato recepisce è che di denaro probabilmente ce n’è a disposizione parecchio, altrimenti non costerebbe così poco. Quindi, razionalmente, conviene prendere a prestito.
C’è chi utilizza questo denaro per fare investimenti industriali, c’è invece chi sfrutta l’abbondanza di liquidità per speculare su attività immobiliari. Altri, simili alla cicala di Esopo, si dedicano al consumo più sfrenato, magari facendo leva sulla propria casa (il cui prezzo di mercato è stato “drogato” dagli speculatori di cui sopra), utilizzandola come una sorta di bancomat.
Bene. Un bel giorno, quelle banche centrali che da buoni organismi pianificatori quali sono avevano deciso di mantenere i tassi d’interesse così bassi, improvvisamente decretano che è giunto il momento di “normalizzarli” (mi direte poi voi quale sia il tasso d’interesse normale, perché io ancora non l’ho trovato) per bloccare qualche bolla speculativa da loro stesse causata.
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Il costo del denaro quindi aumenta e chi prima si era indebitato (imprese e famiglie) ora si trova nella difficile situazione di dover pagare rate molto più salate e di dover pareggiare i conti alla fine del mese. E per pareggiarli, si rende necessaria la vendita forzata di investimenti e attività immobiliari, nonché la riduzione dei propri consumi. Perché nel frattempo, man mano che i tassi salivano, i redditi per le imprese e le famiglie non aumentavano più che proporzionalmente. Anzi.
In un sistema economico in cui tutti gli operatori sono stati portati a comportarsi nella stessa maniera, il primo sintomo della malattia che stiamo cercando è una vorticosa spirale deflazionistica: ovvero, tutti cercano di vendere allo stesso momento le loro attività nel tentativo di ridurre il proprio grado d’indebitamento. C’è chi vi riesce più in fretta, c’è chi invece tentenna ed entra in una modalità che definirei di “minimizzazione dei debiti”. Ma la costante è che i prezzi calano. E non smettono di farlo.
L’obiettivo è ora quello di mandare avanti la baracca e di concentrare tutte le risorse per ridurre l’enorme peso di debiti e di passività. I prezzi dei vari beni continuano a scendere, perché la domanda aggregata in questa modalità non è molto forte: le imprese hanno la necessità di migliorare i propri bilanci, perché così non si va altrimenti da nessuna parte (salvo fallire) e quindi non investono. Le famiglie – che derivano il proprio reddito da quelle imprese che temporaneamente non stanno più perseguendo la consueta massimizzazione del profitto, e che quindi stanno licenziando i propri dipendenti per sistemare i conti – si trovano dal canto loro a dover affrontare una situazione molto difficile, dove la priorità non è più consumare, bensì sopravvivere.
In questo scenario da depressione, la prima reazione delle banche centrali è quella di fare subito retromarcia, riportando il costo del denaro a livelli bassissimi, quasi nulli, nel vano tentativo di stimolare l’economia. L’aspettativa, infatti, è che le imprese e le famiglie tornino a prendere a prestito e quindi a investire e a consumare. Ma ciò non può accadere, perché tutti in questo mondo sono nella modalità di “minimizzazione dei debiti”. Ed essendo razionali, né le imprese né le famiglie cadono più nel tranello.
A ciò aggiungiamo pure un effetto collaterale della malattia (ma di enorme importanza): le banche che facevano i prestiti – e che quindi trasmettevano la politica monetaria – ora devono rientrare dalle proprie esposizioni. Ma cosa capita? Che molte imprese e molte famiglie, nonostante operino in una nuova “modalità”, finiscono comunque gambe all’aria e falliscono. Le banche entrano quindi in possesso dei loro beni, ma a loro volta sono costrette a venderli (a sconto) per rientrare dalle sofferenze.
Moltiplicate questo effetto collaterale per innumerevoli volte e scoprirete che le banche commerciali, nonostante le banche centrali abbiano abbassato il costo del denaro, si trovano in estrema difficoltà: il loro stato patrimoniale si è danneggiato e quindi non sono più in grado di fare prestiti come una volta. Anche loro sono malauguratamente entrate nella modalità di “minimizzazione dei debiti”.
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Ecco la nostra malattia: la cosiddetta “trappola di liquidità”. Ormai a nessuno interessa più quanto costa il “denaro”, perché i tassi d’interesse non hanno più alcun effetto sull’economia nel suo complesso. Tutti stanno sistemando i conti e stanno bene attenti a non scottarsi più. Ma come si può guarire da questa terribile quanto rara malattia? Qual è la medicina al momento più efficace?
La spesa pubblica come l’olio di ricino?
In un contesto in cui gli operatori stanno agendo tutti razionalmente, e quindi le condizioni di libero mercato sono ancora in essere, la conseguenza della malattia di cui vi parlavo precedentemente è molto chiara. Cerco di rendere tutto più semplice attraverso un esempio.
L’impresa A vende beni alla famiglia B, incassando 100 euro. Parte di questo incasso (il 90%) viene speso per far andare avanti l’attività, mentre il rimanente 10% (10 euro) viene risparmiato e quindi depositato nella banca C. In condizioni normali, la banca C è in grado di dare in prestito (investire) questi 10 euro alla famiglia B o alla impresa D, reinserendoli nell’economia e quindi mantenendo il livello aggregato stabile sui 100 euro (se l’investimento/prestito è produttivo, l’economia aumenta di valore, ad esempio a 110 euro).
Se invece non c’è nessuna famiglia B o impresa D interessata a prendere a prestito quei 10 euro, perché in modalità di “minimizzazione dei debiti”, l’economia si contrae e ora vale 90. Sì, perché nonostante quei 10 euro non siano spariti, sedendo improduttivamente sul conto corrente in banca essi non valgono assolutamente nulla: sono pari a carta straccia. Immaginate il ripetersi di questo ciclo vizioso su vasta scala: l’economia entra in depressione e finisce per collassare: da 90 passa a 81, da 81 passa a 72.9 e così via.
Per evitare gli enormi danni sociali che tale collasso comporterebbe, l’unica soluzione che sinora è stata concepita è rappresentata dall’entrata in campo dello Stato. Quei 10 euro sono infatti ancora sul conto corrente della banca: sono “abbandonati” sui suoi bilanci e non generano alcun valore per la società.
Nessun operatore economico privato sta razionalmente pensando di prenderli a prestito e di renderli produttivi investendoli. L’unico agente che potrebbe decidere di indebitarsi è quindi il solo a non essere in grado di agire razionalmente per la maggior parte del tempo, ovvero lo Stato.
Utilizzando la leva del debito pubblico, lo Stato può drenare quella liquidità che siede improduttivamente sui bilanci delle banche commerciali (che quindi acquisterebbero Titoli di Stato) per impiegarla più o meno produttivamente nell’economia e bloccando quindi la spirale deflazionistica. Con nuova spesa pubblica, finanziata da quei 10 euro che prima non trovavano sbocco, lo Stato è in grado di stimolare l’economia perché entra “a gamba tesa” in un ciclo vizioso che ormai regnava imperante. Deo gratias! Lo Stato è servito a qualcosa!
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Nella legittima speranza che la spesa pubblica venga indirizzata su investimenti produttivi (ad esempio, infrastrutture in aree che ne necessitano grandemente e formazione delle masse di lavoratori rimasti disoccupati), i capitali che erano stati risparmiati trovano finalmente una via per rientrare nell’economia e, dopo un po’ di tempo, l’atteggiamento degli operatori privati cambia razionalmente: la spesa pubblica limita la contrazione del prodotto interno lordo, permettendo alle imprese e alle banche di tornare lentamente a essere profittevoli, i bilanci e i conti tornano gradualmente in pareggio e il sistema economico può riconvertirsi alla modalità di “massimizzazione dei profitti”, riportando anche alla creazione di posti di lavoro.
È un processo lungo, doloroso e che comporta anche una certa dose di umiltà da parte di tutta la società. È la dinamica di una “recessione dello stato patrimoniale”, la forma più grave di recessione, e di una sua possibile cura. Si tratta del perseguimento di un obiettivo fondamentale durante le cosiddette “crisi sistemiche” del sistema bancario, ovvero il mantenimento della stabilità macroeconomica, senza la quale un Paese finisce per collassare su se stesso come una stella nana bianca.
In conclusione, infatti, il lettore più attento avrà compreso che il problema di questa storia rimane nel ruolo di “lubrificante” che il denaro ha per l’economia nel suo complesso, facilitando il libero scambio tra gli operatori. Una volta che questo lubrificante si secca – come è accaduto per quei 10 euro rimasti improduttivi sul conto corrente – anche l’economia si blocca, regredendo a uno stadio precedente e arrivando a collassare. È forse una delle rare occasioni in cui la spesa pubblica e il deficit di bilancio possono portare a dei risultati concreti.
Con la buona pace di chi, come me, storce il naso alla presenza di interventi economici (e non solo) dello Stato nella società.