Riprendendo la definizione del Premio Nobel Paul Krugman, il signoraggio corrisponde “alle risorse reali che il governo guadagna stampando moneta che spende in beni e servizi”. La perdita economica di un governo che rinuncia alla propria autorità monetaria, a favore di una banca centrale che genera moneta a debito, corrisponde quindi al 200% del valore facciale della moneta, cioè ai beni e servizi che non può acquistare, più il debito che lo stato deve accendere per approvvigionarsi della stessa quantità di moneta.



A riprova di questo, abbiamo già evidenziato che, seppure lo stato non si approvvigiona di moneta direttamente dalla banca centrale (a parte momenti di straordinario stress finanziario, come quelli che stiamo vivendo), di fatto, nel bilancio della banca centrale, il passivo dovuto al circolante è coperto dai titoli di stato, cioè da un debito che grava su tutti i contribuenti.



Che la situazione sia insostenibile, è reso palese dall’acceso dibattito in corso sull’attuale manovra finanziaria. Certo, non c’è dubbio che molte Regioni debbano limitare molti sprechi. Ma qui non si tratta di valutare gli sprechi, ma di valutare se il sistema economico e sociale verso cui ci stiamo dirigendo sia sostenibile. E che il sistema non sia sostenibile è reso evidente che a protestare non sono solo le regioni sprecone, ma anche quelle virtuose, capeggiate dalla Lombardia e dal suo governatore Formigoni.

In tali condizioni, la rinuncia delle Regioni alle deleghe per la gestione di alcuni servizi fondamentali per i cittadini diventa un passo inevitabile. E quale soluzione si affaccia all’orizzonte? Alcuni di questi servizi necessari saranno appaltati a ditte private, che inevitabilmente costituiranno dei monopoli, in grado di far pagare ai cittadini (a questo punto declassati al grado di consumatori) il prezzo imposto, senza alcuna garanzia sulla qualità del servizio offerto, come sempre accade quando si afferma un monopolio.



Il monopolio diviene quindi la modalità con cui si deforma l’economia, non più sottoposta alle leggi di mercato, portando come conseguenza un generale impoverimento della popolazione, con gravi conseguenze per le fasce più deboli.

Per comprendere meglio come il sistema sia insostenibile e fautore di sempre nuovi fallimenti e un impoverimento generalizzato, possiamo prendere ad esempio illustrativo il celeberrimo gioco del Monopoli. Le regole di questo gioco, e la stessa esperienza di gioco, manifestano molto bene la dinamica che sottende a un sistema economico che conduce necessariamente al fallimento di tutti i giocatori, tranne il vincitore.

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Il primo elemento notevole da porre in evidenza è proprio la questione monetaria. Per rendere possibile il gioco, non solo inizialmente avviene una distribuzione monetaria gratuita, uguale per tutti: ma con il progredire del gioco, a ogni passaggio dal “Via”, il giocatore riceve una ulteriore donazione monetaria. In tale situazione, non essendoci particolari problemi di scarsità monetaria, i prezzi vengono realmente determinati da una legge “della domanda e dell’offerta”, cioè da quanto un bene (una casella, corrispondente a un terreno), venga desiderato.

 

Il secondo elemento notevole è che la possibilità di costruire (case o alberghi) sul terreno posseduto, dipende dal possesso di tutti i terreni dello stesso “colore”: questo, di fatto, genera dei monopoli, poiché il numero delle caselle risulta limitato, e con l’evolversi del gioco il numero delle caselle a disposizione diviene scarso. La scarsità delle risorse è quindi un elemento essenziale per il sorgere e il consolidamento di un monopolio.

 

Il terzo elemento notevole è il fatto che nel gioco del Monopoli le risorse disponibili sono tutte a pagamento: elettricità, acqua, ferrovie. Si tratta di un salasso continuo e sistematico, che chi ha praticato il gioco conosce molto bene. Un salasso che non è possibile contenere, nonostante vi sia stata all’inizio una distribuzione gratuita di moneta, e che questa distribuzione continui con cadenza regolare, a ogni passaggio dal via. Figuramoci se un simile sistema può sostenersi, se pure tutta la moneta è a debito.

 

E che il sistema non sia sostenibile è reso evidente proprio dalle regole del gioco. Il vincitore è di fatto colui che rimane per ultimo, essendo riuscito a ottenere un qualche monopolio (case e alberghi delle caselle più costose) e avendo provocato il fallimento di tutti gli altri concorrenti. E la pratica del gioco mostra che proprio con queste regole il gioco funziona.

 

Il gioco del Monopoli, che abbiamo utilizzato per mostrare i limiti dell’attuale sistema economico, ha anche un’altra cosa da dirci. Si tratta della storia del gioco, una storia davvero interessante. Nel 1934 Charles B. Darrow, un ingegnere disoccupato, propose alla casa editrice Parker Brothers un gioco basato sulla compravendita di terreni e di immobili: venne rifiutato. Così Darrow, dopo averlo brevettato, produsse il gioco da solo, mettendolo in vendita in un negozio di Philadelphia: le prime 5000 copie furono vendute molto rapidamente e l’anno successivo la Parker Brothers decise di acquistare il gioco.

 

Ma l’ideatrice originaria del gioco è una donna americana, una certa Elizabeth Magie, che lo chiamò “The Landlord’s Game”. Magie era una seguace dell’economista Henry George e il gioco era stato concepito come uno strumento didattico per mostrare la fallacità del sistema capitalistico di allora, che generava di fatto dei monopoli.

 

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Il gioco si svolgeva su una plancia composta da 40 caselle disposte a formare un quadrato di dieci caselle per lato. Le quattro caselle d’angolo identificavano il punto di partenza, dove si otteneva anche del denaro, la prigione, il Parco Pubblico, e la casella Vai in Prigione. Al centro di ogni lato è presente una casella che indica una ferrovia. Le restanti caselle rappresentano proprietà da acquistare o tasse/multe da pagare. In pratica la stessa struttura del gioco che Charles Darrow avrebbe poi copiato trent’anni dopo.

 

Henry George non è stato un economista di secondo piano. Divenne famoso in seguito al libro “Progresso e Povertà” pubblicato per la prima volta nel 1879, un volume prezioso nel quale tentava di spiegare le origini della crisi in corso in quegli anni. Ha ispirato la filosofia e l’ideologia economica nota come georgismo, secondo la quale ognuno ha il diritto di appropriarsi di ciò che realizza con il proprio lavoro, mentre tutto ciò che si trova in natura, principalmente la terra, appartiene a tutta l’umanità.

 

Ancora oggi i suoi sostenitori diffondono le sue idee attraverso il web. Di notevole interesse è un suo contributo del 1894, sulle cause della crisi economica: proprio in quegli anni un durissima crisi colpiva gli Stati Uniti, e il nostro economista diede un contributo notevole ai dibattiti in corso in quegli anni.

 

In questo intervento del 1894, George, dopo aver esaminato le diverse possibili cause della crisi, punta l’attenzione su quella che lui ritiene la principale: la crisi del lavoro. Ovviamente, all’epoca non esisteva una questione monetaria (o era una questione di portata ridotta) e soprattutto non esisteva una finanziarizzazione dell’economia, né era concepibile la moneta come strumento finanziario.

 

Il vero problema erano i monopoli, un problema che comunque ci riguarda da vicino, come vedremo. Infatti, quella crisi del lavoro non era altro che la crisi indotta dalla presenza di monopolisti, proprietari di grandi latifondi terrieri. Per ovviare a questa situazione, George propose una tassa sui latifondi come unica tassa, un sistema che potesse compensare l’abuso di una posizione dominante, l’abuso del possesso di un bene che in realtà doveva essere di tutti.

 

Nei suoi scritti, continui sono i riferimenti religiosi che lo stesso George utilizza a sostegno delle sue affermazioni. Vale la pena riportare la conclusione del suo scritto del 1894.

 

“For that would make land speculation unprofitable, land monopoly impossible, and so open to the possessors of the power to labor the ability of converting it by exertion into wealth or purchasing power that the very idea of a man able to work and yet suffering from want of the things that work produces would seem as preposterous on earth as it must seem in heaven”.

 

“Per questo si renderebbe inutile la speculazione edilizia, impossibile il monopolio terreno, e così si aprirebbe ai possessori del potere di lavoro la possibilità di convertirlo, da sforzo in ricchezza o in potere d’acquisto, e l’idea stessa di un uomo in grado di lavorare, e tuttavia nel bisogno delle cose che il lavoro produce, sembrerebbe assurda, come in terra così in cielo”.

 

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Questo è lo stesso assurdo che stiamo vivendo oggi: non manca in realtà il lavoro (nel senso che non mancano cose da fare), né manca la qualità di ciò che produciamo con il lavoro. Quello che sta distruggendo l’economia è un monopolio, laddove gli interessi di chi detiene il monopolio coincidono con una artificiosa rarefazione dei beni che danno il lavoro.

 

Mancano gli interessi di chi può attivare quei processi che richiedono il lavoro. Un interesse di pochi (monopolisti) contro gli interessi di molti, contro gli interessi del popolo. Un secolo fa, il lavoro era generato da chi possedeva grandi latifondi, dai grandi monopoli dei latifondi. Oggi, il monopolio in grado di generare lavoro è quello della moneta.

 

L’eccesso di produzione di moneta, finita in prevalenza nei mercati finanziari senza regole, o dove l’unica regola era quella del profitto a tutti i costi (anche a costo del bene comune), ha portato a gonfiare smisuratamente il valore dei titoli finanziari. Oggi, dopo quella sbornia di eccessi, il mercato tenterebbe per sua natura un riallineamento dei valori: quindi i valori finanziari dovrebbero scendere. Ma questo non conviene ai grandi speculatori, e questo non permetteranno le banche centrali, strettamente legate come sono alla grande speculazione. Per questo si stampano fiumi di denaro, per continuare a permettere l’ipervalutazione dei prodotti finanziari.

 

Ma il gioco comunque non può durare a lungo. Le cose contro natura comunque non funzionano. Il sistema, così come oggi configurato, è destinato al collasso, per un motivo semplicissimo: la stessa moneta è ormai divenuta un prodotto finanziario. Infatti, una sempre maggiore quantità di moneta è destinata alla copertura dei debiti, che sono prodotti finanziari. Di conseguenza, anche la moneta è destinata a svalutarsi. Ma il paradosso è proprio questo: proprio la natura della moneta, oggi definita come passivo nei bilanci delle banche centrali, richiede sempre maggiore moneta, con due conseguenze distruttive: da una parte sempre maggiore debito; dall’altra, sempre maggiore svalutazione della stessa moneta.

 

In un interessante intervento pubblicato su queste pagine ieri di Gabriele Grecchi, uno che, come ammette lui stesso, “storce il naso alla presenza di interventi economici (e non solo) dello Stato nella società”, l’autore scrive che in questo periodo storico servirebbero proprio interventi di stato che, con una espansione del debito, stimolassero l’economia con opere pubbliche e investimenti: “La spesa pubblica limita la contrazione del Prodotto interno lordo, permettendo alle imprese e alle banche di tornare lentamente a essere profittevoli, i bilanci e i conti tornano gradualmente in pareggio”.

 

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Con esempi molto chiari, l’autore mostra come in tempi di incertezza come questi, l’investitore intuisce la fragilità intrinseca del sistema economico e preferisce mantenere la liquidità piuttosto che investirla. Ma i depositi che riposano in banca, come nota Grecchi, “sedendo improduttivamente sul conto corrente in banca non valgono assolutamente nulla: sono pari a carta straccia.” Questa è la realtà di cui rendersi conto. La moneta, per essere tale, deve circolare. Ma la liquidità, come già evidenziato in altro articolo, ha la proprietà opposta della moneta; la liquidità per definizione è ciò che può essere investito in qualsiasi asset: quindi, per definizione, la liquidità si trova normalmente in una condizione di perenne riposo, di non circolazione.

 

Saremmo pienamente d’accordo con le riflessioni proposte da Grecchi, se fossimo in condizioni normali. Qual e allora il problema della soluzione proposta da Grecchi? Perché un investimento dello stato non può funzionare? Perché il nodo cruciale è il debito che gli stati contraggono: un tratto essenziale di un sistema monetario in regime di monopolio è il fatto che la moneta deve essere totalmente altro rispetto al debito che si contrae.

 

Se io mi indebito per un chilo di mele o per un appartamento, ho la possibilità di saldare il debito pagando con moneta. Ma in un regime di monopolio, dove esiste un solo produttore di mele (e un regime legislativo con l’imposizione di un corso forzoso, che dà il potere di pretendere il pagamento in mele) se io mi indebito di un chilo di mele e mi viene imposto di pagare in mele, io non ho materialmente altra possibilità se non quella di pagare il mio debito con un nuovo debito.

 

Allo stesso modo, non è possibile uscire dalla spirale del debito con la moneta emessa solo a debito, e con un sistema bancario che, in forza delle leggi, impone il pagamento con la stessa moneta debito. Questi sono quindi i tre elementi che concorrono al malfunzionamento della finanza e alla distruzione dell’economia reale: il corso forzoso sulla moneta, la moneta debito, il monopolio della moneta. Questo è l’accerchiamento che occorre infrangere.

 

Il corso forzoso è un anacronismo storico che non ha più motivo di esistere. In un mondo moderno che ormai non può più fare a meno di un evoluto sistema monetario, è sufficiente la certezza del diritto nei pagamenti, per cui un debito o pagamento è sicuramente saldato quando viene pagato tramite la moneta.

 

Con uno stato che paga in moneta e chiede moneta con le imposte, il più è fatto. Per quanto riguarda la moneta debito, oltre ad essere un obbrobrio giuridico, non permette la corrispondenza tra moneta e realtà, poiché la realtà è densa di cose che sono un bene oggettivo per tutti senza essere un debito per nessuno.

 

E sul monopolio, non basta che la gestione della moneta, come di ogni cosa inerente al bene pubblico, torni nelle mani dello stato. Penso infatti che una moderna concezione dello stato non possa accontentarsi di una gestione solo centralistica di un bene comune, ma che in questa gestione, così come accade nel settore dell’istruzione e nella sanità, alla gestione pubblica si affianchi la libera iniziativa privata.

 

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Per questo ritengo che, dopo il necessario passo di riappropriazione dell’autorità monetaria da parte dello stato, sia necessario lasciare lo spazio utile alla libera iniziativa per la formazione di sistemi di economia solidale locale, tramite l’utilizzo di sistemi di Moneta Complementare.

 

La moneta è il cruciale ponte di collegamento tra l’atto giuridico e la prassi economica. Se si vuole veramente che la sussidiarietà diventi lo snodo funzionale dei rapporti tra le istituzioni maggiori e quelle locali, non si può prescindere da una struttura monetaria che sia essa stessa sussidiaria. Questo è precisamente il compito delle Monete Complementari.

 

Ma cosa accade invece in questo periodo? Quali sono le politiche economiche proposte? Niente investimenti, ma solo tagli, tagli, tagli. E nessuna capacità di previsione, nessun politico che abbia quel minimo di visione necessaria per accorgersi che con i tagli di oggi stiamo tagliando la crescita di domani, lo stato sta tagliando gli incassi fiscali di domani. Il condannato a morte sta lubrificando la corda con cui verrà impiccato. Oppure dovrà svendere i propri servizi sul mercato, con i prossimi monopolisti che sono già lì con la bava alla bocca.