Il tema della cosiddetta (impropriamente, a mio parere) “privatizzazione” dell’acqua – che ha portato alla raccolta di oltre un milione di firme (presentate ieri alla Corte di Cassazione) a sostegno di tre quesiti referendari per modificare le attuali norme in materia di servizio idrico introdotte con il decreto Ronchi – è estremamente delicato. In questo senso una discussione che parta da posizioni preconcette a favore o contro non aiuta a comprenderne la complessità, né tantomeno a trovare soluzioni.
Quella a cui ci troviamo di fronte, invece, è proprio una battaglia tra due visioni contrapposte, antitetiche: da un lato, chi ritiene che un bene comune, primario, indispensabile come l’acqua debba avere una gestione esclusivamente pubblica; dall’altro, chi invece, in nome di una visione liberista e del principio di sussidiarietà, pensa che anche una risorsa così preziosa possa essere gestita da privati.
Non credo che la questione possa ridursi a essere totalmente d’accordo con l’una o con l’altra scuola di pensiero, anche perché, sul tema specifico, di entrambe si possono trovare applicazioni concrete sia positive che negative. Credo piuttosto che vada cercata e trovata una sintesi.
È indubbio che per un bene fondamentale come l’acqua l’accesso e l’utilizzo debbano essere garantiti a tutti i cittadini, ma una gestione mista pubblico-privata, oppure anche solo privata, non negherebbe questo diritto, sancito peraltro negli articoli di cui si chiede l’abrogazione.
Non si tratterebbe infatti di una privatizzazione in senso stretto: la proprietà delle infrastrutture, degli acquedotti, delle fognature, degli impianti di depurazione, resterebbe in mano pubblica, così come l’indirizzo e il controllo amministrativo, e dunque anche la formazione delle tariffe. Ai soggetti privati o misti pubblico-privato verrebbe affidata solo la gestione del servizio pubblico.
Questo sarebbe un danno per l’utente? Dipende. A fronte di un’integrazione del ciclo idrico in cui la captazione, il trattamento e la distribuzione nonché la raccolta e la depurazione delle acque reflue vengano gestite in modo corretto, sinergico, con economie di scala e costi di gestione adeguati, ciò potrebbe essere al contrario un vantaggio, perché darebbe una forte spinta a eliminare le inefficienze e, forse, a potenziare gli investimenti. Ciò nell’ipotesi – non sempre vera, purtroppo – che una buona gestione porti con sé migliori servizi e costi più bassi per l’utente, e non soltanto vantaggi economici per gli azionisti.
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Resta il fatto che con una gestione totalmente pubblica le attuali inefficienze non possono essere sanate, né garantiti gli investimenti ritenuti necessari. Io non dico che un ente pubblico o una società per azioni a capitale pubblico debba per forza essere inefficiente, tutt’altro. Dico però che oggi, in Italia, le falle del sistema sono evidenti e, lungi dal non pesare su nessuno, rappresentano un costo sociale perché alla fine si riversano sulla fiscalità generale.
Chi è orientato alla gestione pubblica dell’acqua accetta che il prezzo dell’inefficienza ricada su tutti indistintamente, sostenendo che senza acqua non si può vivere e che dunque sulla sua distribuzione non si può guadagnare. Chi è contrario ritiene invece che anche le spese per l’acqua debbano essere sostenute direttamente e proporzionalmente da chi la utilizza, anche attraverso un possibile aumento delle tariffe. Uno svantaggio, dunque, per il cittadino.
Ma è uno svantaggio anche che l’acqua venga a mancare, come accade ad esempio in alcune zone della Puglia, dove ancora oggi quotidianamente cessa l’erogazione del servizio di distribuzione dell’acqua potabile nel pomeriggio e riprende la mattina successiva. Le bollette magari sono basse, ma si può affermare che questo nel 2010 sia un servizio accettabile?
Prima della legge del ‘94 (cosiddetta Legge Galli) la gestione idrica in Italia era nelle mani di oltre 15.000 soggetti, decisamente troppi per riuscire a razionalizzare costi e risorse. L’Anea, associazione che raggruppa le Autorità e gli Enti di ambito a livello regionale, anche a partecipazione pubblica, ha stimato che da qui al 2020, cioè nei prossimi 10 anni, siano necessari investimenti per oltre 60 miliardi di euro se si vuole garantire un livello di servizio accettabile e adeguato all’evoluzione delle esigenze e del contesto sociale ed economico.
Finora solo un terzo dei programmi di investimento per le infrastrutture idriche basati su finanziamento pubblico a fondo perduto è stato realizzato, il resto è rimasto lettera morta perché i finanziamenti non sono stati erogati. Io non ho la certezza che i privati troveranno il denaro necessario, credo però che difficilmente i Governi da qui al 2020 saranno in grado di sostenere spese del genere in una logica totalmente pubblica.
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C’è poi una riflessione più generale da fare: noi siamo abituati che se apri il rubinetto l’acqua esce, se premi l’interruttore la lampadina s’illumina. Non è così scontato. Viviamo in una sorta di diseducazione civile e individuale, senza porci limiti. Dobbiamo invece imparare a utilizzare le risorse in modo corretto, senza sprechi, perché molte inefficienze sono causate anche dall’uso improprio che ne facciamo.
Dunque, se vogliamo sperare che si investa davvero nell’acqua, e in misura così imponente, dobbiamo accettare che la gestione si ispiri in qualche modo anche a una logica di tipo “aziendale” e dunque preveda una remunerazione corretta dei costi e dei capitali, in modo che le inefficienze vengano superate, gli sprechi eliminati, il sistema riorganizzato, nell’ipotesi beneaugurata che questo porti anche un migliore servizio al cittadino.