La settimana decisiva per il settore bancario europeo è finalmente arrivata. Il 23 luglio finirà la pantomima delle indiscrezioni e verranno resi noti i risultati degli stress tests voluti dall’Ue: cosa penso al riguardo lo sapete, avendo dedicato all’argomento due articoli la scorsa settimana.

Certamente ci saranno, a prescindere dai risultati (scontati), reazioni dei mercati, ma il problema, a oggi, appare più grave: ovvero, la situazione macro dell’eurozona, un qualcosa non calcolato negli stress tests che, d’altronde, non tengono nemmeno conto del rischio di default sul debito sovrano degli Stati.



Chi sta cercando di guidare l’Unione fuori dalla crisi, infatti, sembra non sapere che la crescita cinese, per tutti il volano a cui agganciarsi, sta rallentando e non poco rispetto alle stime irrealistiche del 10% avanzate a inizio anno e che gli Usa stanno per entrare nella seconda fase di cosiddetta “big slump” (grossa caduta), situazione ampiamente annunciata dal crollo, registratosi la scorsa settimana, dell’indice ECRI, principale indicatore dell’economia Usa, sceso a -9,8.



Un simile risultato, per la quasi totalità degli analisti, significa una cosa sola: la fine del rimbalzo V-shaped, “a v”, ovvero risalita-crollo-risalita. Normalmente questo risultato anticiperebbe un periodo di recessione entro tre mesi, ovvero la necessità per l’Europa di prendere misure urgenti per evitare di precipitare in un vortice deflazionario. Il debito pubblico che continua a crescere preclude nuove misure di spesa di stampo keynesiano, ovvero nuovo stimolo dalle banche centrali. Insomma, un altro passo verso l’aggravarsi della crisi.

D’altronde c’è poco da stupirsi, visto che la Fed ha permesso alla massa monetaria M3 di contrarsi del 10% quest’anno, un livello da Grande Depressione, con le debite proporzioni storiche ed economiche: siamo alla teoria monetaria quantitativa, qualcosa che è meglio non ignorare mai. L’indicatore del Conference Board americano non ha ancora suonato l’allarme ma questo solo perché soppesa la cosidetta “yield curve inversion”, ovvero quanto i tassi lunghi vanno al di sotto dei tassi a breve: insomma, un indicatore inutile in una situazione come quella attuale della bolla alla giapponese, ovvero con tassi a zero.



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Ben Bernanke può fare poco, se non parlare a chi di dovere riguardo una nuova stagione di quantitative easing, il cosiddetto QE2. E la Bce, cosa fa per evitare l’asfissia del Club Med dal combinato congiunto debito-deflazione? Lo sanno a Francoforte che la massa monetaria M3 sia è contratta per quattro mesi di fila (febbraio -0,3%; marzo- 0,1%; aprile -0,2%; maggio -0,2%)? Lo sanno, ma l’unica politica messa in atto è quella di stringere a dismisura i cordoni della borsa: austerity e rigore fiscale e di bilancio assoluti per tutti, una riedizione dell’allucinante politica del “one size fits all” posta in essere dopo il crollo di Lehman Brothers?

 

Si blocca il programma di acquisto di bond governativi per 60 miliardi di euro e, di fatto, si drena liquidità: i prestiti della Bce verso istituzioni creditizie sono scesi da 870 miliardi di euro a 635 miliardi nelle due settimane precedenti al 9 luglio scorso. Le riserve cash nel mercato interbancario sono crollate di un terzo nel giro di pochi giorni, portando l’Euribor a tre mesi al massimo da undici mesi a questa parte, lo 0,86%, e l’euro a un turbo-rally sulle altre valute, yen in testa.

 

Gli esportatori tedeschi non ringraziano, per una volta. L’unico vero motivo di interesse per i risultati degli stress tests di venerdì è che questi ripuliscano un po’ l’aria facendo chiarezza e sblocchino il sistema creditizio: c’è però un problema, sono gli Stati sovrani – insieme o più delle banche – a rappresentare un rischio, il vero e proprio tallone d’Achille dell’eurozona. Un memo della BaFin, l’ente tedesco regolatore dei mercati, parla chiaramente di “difficoltà collettive” per il Club Med, non di rischio di un default isolato: se parte, la crisi deflagrerà come una bomba all’interno di un corpo chiuso. E gli investitori questo lo sanno.

 

I test di simulazione di Royal Bank of Scotland parlano di perdite potenziali per 400 miliardi di euro per la sola Spagna e di 1,3 trilioni di euro per l’eurozona, invocando politiche di intervento da parte della Bce affinché questo non accada. A Francoforte, però, si stringe la cintura. Tutto si basa sul fondo di salvataggio da 440 miliardi dell’Ue, il cosiddetto Stability Facility, peccato che sia in corso un dibattimento all’Alta Corte tedesca per renderlo illegittimo in base all’articolo 125 dei Trattati europei: difficile che l’Ue lo renda operativo con una tale spada di Damocle che incombe.

 

Ma vi sembra un piano credibile, poi, quello che vede l’Italia – che settimana scorsa ha festeggiato il record assoluto del suo debito pubblico – pagare per salvare Spagna, Portogallo e Irlanda al prezzo di vedere il proprio debito salite ulteriormente? Su sedici Stati dell’Ue, dieci non hanno rating AAA e la Germania vuole bloccare per legge il fondo di salvataggio e ha detto no a qualsiasi operazione di anticipo dei fondi da versare: che credibilità vedete in questo progetto?

 

La Slovacchia, ad esempio, ha aderito al Facility Stability ma ha detto no al salvataggio della Grecia. Ieri l’Irlanda ha visto degradare di un notch il rating del credito a causa della bassa crescita da parte di Moody’s, assestandosi ora a livello Aa2: anche l’outlook è passato da stabile a negativo.

 

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Oggi in Irlanda si tiene l’asta mensile di bond a sei mesi e un anno per un controvalore di 1,5 miliardi di euro, un timing perfetto da parte delle “tre sorelle”: il premio da pagare per raggranellare denaro attraverso la collocazione di quei bond è destinato a salire per ingolosire gli investitori, un ritornello già visto con Grecia e Spagna visto che ieri lo spread tra titoli irlandesi e Bund è salito a 300 punti base.

 

Nessuno, però, parla della capacità di questi Stati di ripagare quegli interessi. D’altronde, per salvare e nazionalizzate Anglo Irish Bank il deficit di budget irlandese è salito al 14%, il più alto d’Europa e destinato a salire al 20% entro quest’anno. La scorsa settimana, il Fondo Monetario Internazionale ha detto chiaramente che Dublino non riuscirà a onorare le richieste europee di ridurre il deficit sotto il 3% entro il 2014 e anche la crescita resterà drammaticamente bassa.

 

Nel frattempo, ieri, l’Ungheria ha detto chiaro e tondo che non intende ottemperare alle misure di austerity imposte da Ue e Fmi, una mossa vista da molti analisti come un sotterfugio politico per prendere tempo e annunciare i duri tagli richiesti dopo le elezioni municipali del 3 ottobre prossimo. Che sia così o meno, saranno altri i paesi che – in nome della stabilità interna, ciò che un tempo veniva chiamato “pace sociale” – cercheranno di ammorbidire le richieste dell’Ue a guida ultra-austera della Germania: quale prezzo comporterà questo “ammutinamento” sui mercati è duro da preventivare ma certamente non sarà conveniente. E potrebbe, come annunciava il memo della BaFin, provocare “difficoltà collettive”. Altro che stress tests.