La vicenda dei 3700 esuberi annunciati da Telecom Italia, e in seguito temporanemente sospesi, ha riportato l’ex monopolista al centro del dibattito politico di questo tardo luglio. Il profilo occupazionale – che ha suscitato le proteste dei sindacati e l’interventismo del ministro Sacconi – si salda con la grande partita di cui Telecom è protagonista: quella della rete di nuova generazione.
La possibilità che un’azienda riveda la propria struttura organizzativa – e particolarmente in un momento d’incertezza dei mercati, e del mercato delle telecomunicazioni tra tutti – non è certo sorprendente: assai problematico, però, è che i minacciati posti di lavoro divengano merce di scambio in una trattativa con governo e (indirettamente) operatori alternativi.
Nell’ottica dell’azienda, il tentativo di unificare discussioni invero distinte – trasformando debolezze in punti di forza e puntellando la propria posizione negoziale – è facilmente comprensibile.
Le questioni aperte per Telecom non accennano a diminuire: non brillano i conti, appesantiti da un debito ingente che la dismissione degli asset meno strategici non basta a contenere; la convivenza tra gli azionisti di Telco rimane precaria, in virtù di obiettivi eterogenei difficilmente riducibili a unità; le voci sulla possibile sostituzione del management continuano a inseguirsi, complicando ulteriormente il compito degli amministratori; le partecipazioni estere danno più oneri che onori – si pensi al destino accidentato di Telecom Argentina, che pure in questi giorni pare incontrare una schiarita, con la mano tesa dal governo Kirchner. Siamo, insomma, di fronte a un’impresa che naviga – necessariamente a vista – in acque alquanto agitate.
D’altro canto, permettere che le difficoltà di Telecom continuino a ostacolare il percorso verso l’NGN (Next Generation Network) è un rischio troppo gravoso per le telecomunicazioni italiane. In tutta evidenza, l’incumbent è too big to ignore, e dovrà giocare un ruolo rilevante nella creazione delle nuove infrastrutture d’accesso in fibra. Questo non implica in alcun modo che lo sviluppo del settore possa essere orientato a togliere le castagne di Telecom dal fuoco.
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In un articolo molto documentato su Affari e Finanza di Repubblica di ieri, Stefano Carli ripercorre l’evoluzione del dibattito sulla rete in fibra, riportando che il coinvolgimento di Telecom nel progetto potrebbe passare per il conferimento della rete in rame a una (o più) newco, in cambio di denaro fresco e di un’opzione di riacquisto (una “call”, in gergo finanziario) della rete in fibra.
Sebbene una valutazione compiuta non possa prescindere dai valori monetari, tuttora oggetto di trattativa, la bontà dell’operazione appare discutibile. Il pericolo è che Telecom si liberi, dietro lauto compenso, di un’infrastruttura maggioritaria ma datata e bisognosa di manutenzione per poi riacquistare, con i profitti di questa partita di giro, una nuova rete fiammante. Il tutto con buona pace della concorrenza.
L’idea che il paese possa sostenere economicamente un’unica rete in fibra è ormai diffusa unanimemente tra gli analisti e i policy-maker, e in quest’ottica l’adesione dell’ex monopolista appare irrinunciabile. Ma se il prezzo da pagare per la partecipazione di Telecom fosse troppo alto, non sarebbe forse il caso di riconsiderare i presupposti?