Venerdì 23 luglio 2010, dopotutto, potrebbe essere un gran giorno. Senza scomodare sfere di cristallo, né oroscopi cinesi, il futuro della finanza europea dipenderà da un fatidico annuncio previsto per questo penultimo venerdì di luglio. Domani il Comitato europeo dei supervisori bancari (Cebs, per gli amanti degli acronimi) pubblicherà i risultati degli stress tests effettuati su un centinaio – 91 per la precisione – di banche europee.



L’intento di produrre un dossier asciutto, rilasciato a freddo e privo del solito montare di aspettative pressanti è già fallito. Tra le scrivanie di noi operatori circolano, ormai incontrollate, improbabili liste di proscrizione, tutte contenenti – a detta dell’informatore di turno – l’elenco sicuro dei bocciati.



Questa frenesia da notte prima degli esami mi ricorda il giorno del mio test di abilitazione a operatore di borsa. Nell’attesa di entrare nella sala della prova scambiai qualche parola con il mio vicino, un americano con faccia squadrata alla John Wayne e immancabile accento da cowboy. Era stato raccolto da una banca di investimento americana in un college del mid-west e mandato a farsi le ossa nella city londinese.

Durante lo scambio amichevole, un’assistente passò tra i candidati per distribuire la procedura dell’esame. Giunta all’altezza del mio vicino, l’assistente fu apostrofata in questi termini: “I don’t believe in procedures”. Detto questo, il cowboy restituì il foglio della procedura senza neppure degnarlo di un’occhiata.



Ho come l’impressione che, messo davanti ai risultati della procedura di stress test, il banchiere cowboy reagirebbe proprio come quella volta all’esame. Ma, si diceva, domani potrebbe essere un gran giorno. E per capirne il motivo, occorre fare un salto dentro il mondo iper-tecnico del Cebs e comprendere per sommi capi scopo e contenuti di uno stress test.

Non che il salto debba fare troppa impressione: lo stress test condotto dal Cebs è un esercizio che sulla carta appare fin troppo semplice. Si prendono gli attivi di una banca, si simula uno scenario di perdite catastrofiche e si guarda a cosa resta sul bilancio dopo il passaggio dell’uragano.

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I parametri esatti della perizia “post-disastro” non sono ancora noti, ma si può ragionevolmente supporre che il Cebs guarderà al cosiddetto Tier 1. Questo parametro altro non è che il livello di capitale proprio a disposizione di una banca: quelle risorse fresche, in altre parole, che una banca può spendere in ogni momento per assorbire perdite inattese.

 

Con ogni probabilità lo stress test seguirà uno schema di questo genere: se il capitale proprio, il Tier 1, sarà superiore a una certa soglia – diciamo il 6% degli attivi ponderati per i rischi ancora a bilancio (il cosiddetto Tier 1 ratio) – allora il test si considererà passato. Se la frazione restituirà un valore inferiore al 6%, alla banca bocciata non resterà che affrontare la gogna dei mercati.

 

Scopo di un tal esercizio, per quanto paradossale possa apparire, è tranquillizzare le piazze finanziarie. All’indomani del crack Lehman, uno stress test di questo tipo riuscì a riportare la fiducia oltreoceano, proprio quando il dollaro sembrava crollare sotto i colpi di fallimenti a catena.

 

Insomma, comunque vada, il sistema finanziario dovrà apparire solido e in gran forma. Potrà mostrare qualche crepa – una cassa di risparmio spagnola in affanno, un landesbank in ritardo nella convalescenza – ma il sistema nel suo insieme dovrà riportare gli operatori a un cauto ottimismo.

 

Succederà proprio così? Probabilmente sì. Sorprese e “tragedie greche” negli ultimi diciotto mesi non sono mancate e sui mercati la voglia di voltare pagina è tanta. Resta una piccola annotazione a margine, dettata dal perfido rigore di alcuni dati che, presi assieme, rischiano di turbare il sogno di mezza estate del Cebs.

 

Delle prime otto banche per capitalizzazione al mondo, quattro sono cinesi, tre americane e una è la banca commerciale di Hong Kong e Singapore. Solo quest’ultima, un conglomerato sino-britannico, rientra nel perimetro dello stress test europeo, sebbene il gruppo non sia denominato in euro (la valuta di riferimento è la sterlina ma, dato il profilo internazionale, HSBC comunica con i mercati in dollari). Delle banche europee, nella lega dei titani, nessuna traccia. Insomma, il palliativo che ha tamponato la crisi americana, in Europa rischia di non trovare massa sufficiente a innescare una risalita.

 

E guardando al calendario, i motivi per temere sulla tenuta del cauto ottimismo non mancano. A settembre si pubblicheranno i risultati di una prima analisi sull’applicazione di Basilea 3 (una nuova regolamentazione da applicare al settore bancario europeo). Da questa normativa ci si attendono criteri molto più stringenti per definire quel capitale che possa propriamente definirsi Tier 1. È probabile che in nome di un furore rigorista il comitato di Basilea sfoltirà il Tier 1 delle banche a colpi di ascia. E questa volta non si tratta di uno scenario ipotetico: è tutto terribilmente vero.

 

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Per dare un’idea della confusione che rischia di inondare i mercati, è sufficiente segnalare il seguente, tragicomico, paradosso. Nell’arco di poco più di un mese, Cebs e Comitato di Basilea si troveranno ad analizzare i criteri del Tier1 e a simulare le perdite derivanti da uno scenario di default. In sintesi, si tratterà di calcolare l’impatto dell’attuale crisi europea e della montagna di debito pubblico – Grecia in testa – tenuta a bilancio dalle banche dell’eurozona.

 

Ma a punire gli istituti di credito per l’abbuffata di debito sovrano saranno proprio quei regolatori che da anni spingono le banche lontano dai finanziamenti all’impresa con lo scopo preciso di favorire strumenti di debito pubblico (bond governativi) o privato (cartolarizzazioni di mutui e carte di credito).

 

Non c’è da stupirsi se davanti a questo spettacolo l’amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, abbia proposto la creazione di un fondo anticrisi a contribuzione diretta delle banche. È chiaro che chiamando in causa gli istituti si cerchi di riportare l’attenzione dei mercati su soluzioni che facciano della logica e della responsabilità diretta le principali linee guida.

 

Purtroppo, una provvidenziale soluzione di mercato, tanto cara a istituti quali Unicredit e Barclays, oggi non arriverebbe al cuore del problema. Se la crisi fosse solo circoscritta al perimetro del mercato, se davvero regolatori, comitati sovranazionali e stati non avessero nulla a che spartire con questa crisi, allora, forse, i fondi sovrani di Qatar e Libia non figurerebbero tra i principali azionisti di Barclays e Unicredit, rispettivamente.

 

No, la crisi oggi è molto di più. È una crisi più profonda, radicata nel sistema che – a briglia sciolta – ha regolato i mercati negli ultimi venti anni.

 

Domani forse sarà chiaro che dalla situazione attuale non si potrà uscire a suon di inviti alla calma e rassicuranti simulazioni econometriche. E magari si avvertirà la percezione che in Europa serve innanzitutto il coraggio per un cambiamento radicale nel modo di fare banca. Chissà che, dopotutto, domani non possa essere un gran giorno.