Alla faccia degli stress tests, i cui risultati verranno pubblicati domani sera, Reuters sta mettendo in guardia i mercati dall’esposizione degli istituti di credito ellenici: i finanziamenti erogati dalla Banca centrale europea alle banche di Atene hanno registrato un incremento del 4,9% in giugno, toccando quota 93,8 miliardi di euro. Troppi in più, se paragonati agli 89,4 di maggio.
E anche per l’Italia le cose non vanno bene, visto che nel suo ultimo Bollettino Statistico, la Banca d’Italia rende noto che le consistenze sulla Grecia sono passate dai 3,85 miliardi di euro di fine 2009 ai 4,22 miliardi dello scorso marzo. Ma cresce anche l’esposizione verso il Portogallo, dai 4,81 miliardi di euro del dicembre scorso ai 5,1 miliardi di marzo. In flessione, anche se di poco, i valori su Irlanda e Spagna.
Resta un dubbio. Come mai sono aumentati questi valori? I precedenti conteggi erano errati o qualcuno ha acquistato ancora bond di Atene, sperando nel colpaccio dei rendimenti elevati e sull’effetto placebo del piano di salvataggio Ue-Fmi? Di sicuro, occorrerà spiegare il motivo di questa variazione, anche perché l’esposizione, da marzo a oggi, potrebbe essere cresciuta ancora.
Si sa, i furbi ci sono sempre. O, almeno, chi pensa di esserlo. Pensate infatti che la crisi abbia insegnato qualcosa ai campioncini della leva? Solo ora si comincia a tirare indietro la gamba, per usare un gergo calcistico, ma nei mesi scorsi… Attualmente il prodotto d’investimento più hot a Wall Street è la paura. Non timore, preoccupazione ma vero e proprio panico per un possibile nuovo crollo, qualcosa di molto simile al post-Lehman Brothers.
Ecco quindi che Pimco, il fondo dei fondi, sta programmando la creazione di un fund che offrirà protezione agli investitori contro crolli del mercato fino al 15%: il fondo, già denominato “Black Swan Protection”, richiamando il best seller editoriale di Nassim Nicholas Taleb, sarebbe nei fatti la risposta definitiva al trend che ha visto quintuplicare nell’ultimo trimestre l’investimento in strumenti derivati (il cui prezzo ha toccato il massimo da due anni a questa parte) per speculare sulla volatilità del mercato: avete capito bene, gli investimenti su derivati ad alto rischio sono quintuplicati nell’ultimo trimestre, alla faccia del Vix basso e della responsabilità che deve essere la nuova regola per gli investitori.
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La paura di un aggravarsi della crisi del debito nell’Ue e di un altro flash crash sullo stile di quello del 6 maggio scorso che ha mandato il Dow Jones sotto i 1000 punti, sta trasformandosi in benzina per il mercato dell’hedge: il “tail risk” (“grave rischio) è il fantasma, occorre prepararsi a scenari da cataclisma. La pensa così, almeno, l’Indian Public Employess Retirement Fund, un enorme fondo pensione che gestisce 14,1 miliardi di dollari di assets, che già a gennaio aveva mandato alle istituzioni finanziarie una richiesta di chiarimento rispetto alla possibilità di accedere a un “tail risk protection program” in caso di «an extreme market turndown» («un forte crollo dei mercati»).
Insomma, per dirla con i Rage against the machine, in questo momento «fear is your only God» (“la paura è il vostro unico Dio”). E anche l’unico modo di far soldi. O, quantomeno, per non perderli. Ma al di là degli stress tests, i cui risultati domani sera ci diranno lo stato di salute della banche europee (mentre lo scrivo, sorrido), sono altri gli indicatori che fanno intendere una crescita a livello globale decisamente stagnante, a partire dalla Cina che sicuramente uccide chiunque, ma le cui prospettive sono decisamente ridimensionate da quelle di inizio anno.
In questi giorni è divampata una polemica aspra tra gli analisti riguardo al Baltic Dry Index, ovvero l’indice dell’andamento dei costi del trasporto marittimo e dei noli delle principali categorie delle navi dry bulk cargo. Questo raccoglie le informazioni relative alle navi cargo che trasportano materiale “dry”, quindi non liquido (petrolio, materiali chimici, ecc.) e “bulk”, cioè sfuso. Riferendosi al trasporto delle materie prime o derrate agricole (carbone, ferro, grano ma anche acciaio, ecc) costituisce anche un indicatore del livello della domanda e dell’offerta di tali merci, per queste sue caratteristiche viene monitorato per individuare i segnali di tendenza della congiuntura economica.
La disputa è riguardo le motivazioni dell’ultimo crollo di questo indice, ovvero se vada letto come un ulteriore indebolimento dell’economia Ue/Usa/Cina oppure come l’effetto collaterale dell’aumento del numero di navi da trasporto oggi sul mercato e a disposizione. O, forse, come spesso capita, un combinato di entrambe. Certo, il crollo è di quelli pesanti poiché il BDI è sceso da 4200 a 1720 dalla fine di maggio, ancora peggio è andata al Capesize Index – quello che rileva l’andamento per navi troppo grandi per poter passare dal Canale di Suez e quasi esclusivamente dedicato al trasporto di acciaio e che pesa per un quarto sul Baltic Dry Index – sceso da 5520 a 1676.
Meglio dire subito che questi indici sono parecchio volatili: diedero segnali giusto in anticipo rispetto alla Grande Recessione, ma il loro crollo nell’estate del 2005 si rivelò un falso allarme. Ovviamente, il fatto che ci siano 235 nuove navi Capesize sul mercato ha portato a una contrazione e anche la politica della Cina contro le “tre sorelle” dell’acciaio – Vale, Rio e Bhp – ha fatto sentire il suo peso: Pechino ha stivato qualcosa come 70 milioni di iron ore, utilizzando queste riserve come un’arma di difesa e ricatto al tempo stesso contro i grandi fornitori.
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Inoltre, sempre la Cina per cercare di tamponare la bolla immobiliare ha fatto partire una politica di congelamento dei prestiti, di fatto paralizzando il mercato delle costruzioni: per i Lloyds, molti produttori di acciaio cinesi rischiano di andare in default rispetto ai loro contratti con gli spedizionieri. Insomma, comunque sia il crollo del BDI non parla una lingua votata all’ottimismo, così come la settimana scorsa la caduta a picco dell’ECRI, il principale indice dell’economia americana.
Negli Usa la vendita di nuove case nel mese di maggio è crollata al minimo record di 300mila, i consumi statunitensi sono scesi dell’1,1% sempre a maggio e dello 0,5% a giugno. L’output manifatturiero è sceso dello 0,4% a giugno e il Philly Index per i nuovi ordini manufatturieri si è contratto del 4,23% a giugno. L’associazione degli autotrasportatori Usa ha confermato che il tonnellaggio è sceso dello 0,6% a maggio e ha già annunciato una stagione di cali periodici.
Il traffico marittimo a lunga percorrenza dal porto di Long Beach è sceso da 139mila containers di maggio a 116mila di giugno, quello dal porto di Los Angeles da 161mila a 155 mila: certo l’export va meglio, favorito dal dollaro tornato debole ma sono segnali misti a fronte di una situazione di crescita decisamente preoccupante.
Anche perché a confermare i timori ieri ci ha pensato l’ultimo report di Goldman Sachs, secondo cui le politiche di stimolo all’economia poste in essere dal governo Usa per scongiurare una recessione double-dip stanno per finire e questo pone seri rischi per un’ulteriore frenata della crescita.
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Il Senato Usa sta lavorando a un’estensione del programma di stimolo, ma se da un lato questo aiuterà l’economia in questa fase negativa, dall’altro porta con sé un segnale nefasto: «Se ci sarà un’estensione dello stimolo fiscale, stiamo certi che questa sarà l’ultima», ha scritto l’analista Alec Phillips. Come dire, se questa mano di poker va giocata, occorre farlo certi di ciò che si sta decidendo: da una nuova stagione di quantitative easing senza risultati strutturali, non c’è ritorno.
Insomma, attendiamo pure i risultati degli stress tests di domani sera ma con la consapevolezza che i problemi sono altri. E molti.