“Le cose che facciamo, fanno noi” (The things we make make us): se i delegati della Fiom-Cgil che hanno scelto la linea dura contro la Fiat di Sergio Marchionne fossero mai stati ad Auburn Hills, quartier generale della Chrysler nel Michigan, e avessero letto sulla facciata della torre principale degli uffici questa intestazione, campeggiare come una specie di “primo e unico comandamento”…be’, non avrebbero preso sotto gamba le ammonizioni dell’amministratore delegato del gruppo del Lingotto.
A lui piacciono queste visioni integre, e forse integraliste, del lavoro: “Ciò che produciamo produce noi”, bellissimo! Sembra una metaforizzazione di Feuerbach, “l’uomo è ciò che mangia”, uno stereotipo mentale del proto-marxismo rivisto in chiave calvinistico-capitalistica. Se non fai niente, non sei niente. Se dici che vai in malattia e invece stai bene, sei un ladro. Se dici che ti assenti per ragioni di famiglia e invece vai a fare volantinaggio sei un bugiardo.
E poi Marchionne, che già di per sé queste cose proprio non le sopporta, non è più lo stesso di due anni fa. I sindacati italiani non l’hanno ben capito: almeno, non la Cgil. Marchionne è sempre stato più americano che italiano, con buona pace della nascita chietina. Solo che fino a un momento prima di comprare la Chrysler aveva, sì, tanta produzione già collocata all’estero – Polonia, Brasile, Turchia – ma, diciamolo: era un estero sfigato. Non terzo mondo, ma nemmeno primo mondo. Impensabile usarlo come “porto franco” per delocalizzare dall’Italia. Adesso è diverso.
Adesso 51 mila lavoratori del Paese più ricco del mondo, gli Stati Uniti d’America, sono lì che producono e lavorano, febbrili e orgogliosi, e a momenti fanno la “ola”, perché due anni fa temevano tutti di aver perso il posto e invece è arrivato l’uomo col pullover e il capello lungo e unto e gli ha salvato la tuta. E ne ha già assunti tremila in più. Gli sono gra-ti. Semplicemente grati. Senza “se” e senza “ma”.
Come mai? Semplice: sono americani. Non pensano di avere sempre e comunque alle spalle uno Stato-papà. Anzi, mammà. Pronti a passargli la paghetta settimanale, che lavorino o no, che studino o no. La gente di Pomigliano, a voler essere semplicisti, ricorda quando il fabbricone era dell’Iri e il salario era una variabile indipendente, per ogni Alfasud che veniva prodotta la scommessa era quanti soldi l’Iri dovesse rimetterci. Non ci lavoravano loro, erano troppo giovani, ma il padre o uno zio sì, fingevano sicuramente di lavorarci…
Oggi è diverso, oggi va meglio, e il 63% degli operai di Pomigliano ha votato “sì” alla ricetta organizzativa di Marchionne. Ma l’altro 37% crede ancora ai pasti gratis. Può boicottare. Ha iniziato a farlo, sia pure in modo strisciante. La produttività di Pomigliano è ancora tra le più basse degli stabilimenti Fiat. Il piano “Fabbrica Italia”, che Marchionne ha creato e proposto ai sindacati italiani, è stato un modo politicamente corretto per dirgli: “Se fate esattamente come dico io, vi prometto lavoro e benessere. Altrimenti farò esattamente come dico io nel Paese in cui me lo lasceranno fare”.
A quest’approccio – che non è antisindacale ma è meramente pragmatico – fa riscontro un “problema-Paese”. Per investire in Serbia i 700 milioni di euro necessari a produrvi la nuova Multipla, anziché lasciarla a Mirafiori, il gruppo dovrà sborsarne solo 350, gli altri li mette la Bei (Banca eurpea investimenti, 350) e la Regione di Belgrado. Come succedeva in Italia venti, trent’anni fa. Ma oggi il governo “non sa a chi dare i resti” della manovra finanziaria. Spiccioli di investimenti, contesi da troppe mani. E’ finita quell’epoca, le vacche grasse sono tutte rinsecchite, mummificate.
Melfi – l’ultimo nato degli impianti Fiat italiani – aveva avuto l’aiuto di tanti soldi pubblici. Ma quando oggi alcuni sindacati, e certa sinistra, rinfacciano alla Fiat gli aiuti intascati dallo Stato a quell’epoca, non sanno che a Marchionne non gliene può importare di meno. Lui non c’era, e non deve risponderne. Ed oggi quegli aiuti che l’Italia non può più erogare, ecco pronta la Serbia ad erogarli, o la Turchia, o il Brasile o la Polonia. Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto.
Non se ne esce, Marchionne sulla partita dell’efficienza produttiva non mollerà di un centimetro. Non gli servono gli applausi della gente in strada e certo non farà mai politica in Italia: va soltanto dove lo porta il portafoglio.
E trattare, mediare? Quello sì: ma soltanto da un orecchio vuol sentire, il capo della Fiat. Quello della condivisione dei buoni risultati: a lui non dispiace avere socio il sindacato americano, in Chrysler, purchè faccia più l’azionista che il sindacato e lasci decidere a lui come va gestita la fabbrica per mantenerla competitiva. Ed è quello che il sindacato Usa sta facendo. Ci provi anche la Fiom: sarà l’unico modo per salvare Fabbrica Italia. Altrimenti, non si farà: Marchionne si prenderà la croce addosso di aver deindustrializzato il Paese, farà spallucce e resterà a macinare utili – sempre che ci riesca nonostante la crisi del settore che persiste – dove potrà macinarli.