La pantomima degli stress tests è finita, ringraziamo il Signore per il termine di questo stillicidio di indiscrezioni e attese mal riposte. Il mio giudizio sul valore di quei tests lo conoscete da tempo, i risultati ufficiali non lo cambiano.

Sono però felice di condividere il mio pensiero con Nouriel Roubini, il catastrofista per antonomasia che però, visto che ci prende con precisione chirurgica da almeno due anni e mezzo a questa parte, oggi viene interpellato anche dai media più istituzionali: «Quei tests sono irrealistici perché non sono stati sufficientemente duri per riflettere il peggioramento delle condizioni economiche europee: per quanto riguarda crescita e rischio sovrano, i criteri utilizzati dai tests sono assolutamente inattendibili. Inoltre, per quanto riguarda il rischio sovrano contenuto nei maturity books, i tests non contemplavano l’ipotesi di default».



Ma non solo. Anche per Steve Bernstein della Oppenheimer Investment Asia, «manca completamente il rigore nei criteri di quei tests. Le banche costrette a nuove capitalizzazioni saranno molte di più, statene certi, anche perché è assurdo mettere sotto stress solo una parte del portafoglio, occorreva mettere mano anche al portafoglio di investimento delle banche».



Per Jim Rogers, uno dei più famosi investitori del mondo, «gli stress tests sono stati soltanto un esercizio di pubbliche relazioni, una perdita di tempo e di inchiostro dei giornali. I criteri non erano sufficientemente duri e i mercati lo sanno benissimo».

Per James Ferguson, analista alla Arbuthnot Securituies, «quella degli stress tests è stata un’occasione persa per le banche e i regolatori di rimettere il sistema in carreggiata. E si sa che quando si falliscono certe opportunità, queste ti si ritorcono contro prima o poi. Le banche dovevano essere obbligate dai regolatori a ricapitalizzare, perché solo così – al netto delle perdite – potranno tornare a fare credito a consumatori e imprese, il loro lavoro. Così gli si consente solo di continuare a stringere i cordoni del credito per indirizzare il capitale verso investimenti più fruttuosi, ovvero operare sulla leva come dei fondi»



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Sufficiente? D’altronde, basta vedere la “tiepidezza” delle Borse europee ieri (con i guadagni delle banche incapaci da fare da traino per i listini), primo giorno di apertura dopo la pubblicazione dei risultati, per capire che le banche possono prendere in giro se stesse e i cosiddetti regolatori ma non gli investitori, ovvero chi rischia di perdere di suo e non può godere di aiuti di Stato in caso di crack.

 

Capitolo chiuso, almeno per quanto mi riguarda. Anche perché i problemi, per l’Italia, trascendono e di molto la questione del sistema bancario. Vista da Londra, infatti, la situazione è grave e impone un unico imperativo: il governo smetta di litigare, la smetta con le divisioni, i processi sommari sui giornali, le veline avvelenate. Se non ce la fa più, si vada al voto o a un governo di larghe intese per stabilizzare la situazione e governare la crisi: in troppi stanno fregandosi le mani ogniqualvolta l’uno o l’altro protagonista lancia attacchi e ultimatum agli altri. Quindi, fatela finita.

 

E non tanto per decenza politica, categoria sconosciuta, ma per il fatto che i mercati stanno mettendo l’Italia nel mirino: difficile spiegare altrimenti l’intemerata contro il nostro paese lanciata da Edward Hugh, meglio conosciuto come lo “Europe prophet of doom”, secondo cui «l’Italia è una bomba ad orologeria ticchettante a causa della sua enorme economia grigia». Ovvero, il sommerso. Per Hugh, infatti, «l’Italia ha una forte economia informale e come tale quest’ultima non garantisce gettito fiscale, il problema è che alla fine si riesce sempre a ottenere sanità e pensioni pur non avendo versato nulla o un quota risibile del reddito reale. Temo che la situazione sia ormai fuori controllo».

 

Per Hugh, quanto sta accadendo nell’Europa orientale – per esempio in Ungheria – rischia di ripetersi nell’Europa del Sud nell’arco di due-tre anni al massimo: «L’Ungheria punta a svalutare il fiorino ma non può farlo più di tanto perché la maggior parte dei prestiti sono denominati in monete estere: se non dovesse funzionare questo processo, posto in essere ad esempio in Lituania, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia potrebbero ritrovarsi in grave sofferenza e a quel punto la Germania dirà basta al salvataggio e all’aiuto a pioggia e senza fine dei partner economicamente depressi». Per Hugh, inoltre, «nell’Europa del sud la gente vive in un mondo irreale e non si rende conto della gravità dei problemi che presto sarà chiamata ad affrontare e risolvere».

 

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Nulla di nuovo ma il fatto che sia l’Italia il bersaglio principale e che Cnbc abbia dato ampio risalto all’analisi di Hugh la dice lunga: più che i cds, a preoccupare devono essere i titoli dei giornali e le beghe interne al PdL. Attenzione, là fuori ci sono investitori pronti a scappare ma anche a speculare senza tanti scrupoli. E avanti di questo passo, il Belpaese rischia di diventare davvero terra di conquista. Anzi, di razzia.

 

Anche perché, manager, banchieri e top traders stanno rimettendo mano a un vecchio testo, “La morte della moneta: lezioni delle grandi inflazioni tedesca e americana”. pensate che tale è la richiesta da parte dell’elite economica e finanziaria che Ebay ne vende copie a quasi 700 dollari. Insomma, si teme che le politiche di stimolo porteranno a un grave rischio inflazionistico: un cambio di atteggiamento, forse più mentale che altro che però potrebbe rivelarsi autoalimentante visto che nato e sviluppatosi tra i veri decision makers.

 

In effetti, però, la Bank of England ha salutato con sorpresa e stupore l’aumento dell’inflazione in Gran Bretagna la scorsa settimana e i critici della Fed, negli Usa, annunciano che la crescita della base monetaria statunitense da 871 miliardi a 2.024 miliardi in soli due anni rappresenta una pira incendiaria che si infiammerà non appena la velocità monetaria Usa ritornerà normale.

 

Non a caso Morgan Stanley si attende una carneficina per i bond Usa, predicendo che i rendimenti per gli Us Treasuries schizzeranno al 5,5%, un qualcosa di quasi mai accaduto. I rendimenti a 10 anni, infatti, ora sono scesi sotto il 3% e la velocità della massa monetaria M2 è rimasta sotto il minimo storico di 1,72. Insomma, se questo accadrà arriveremo all’iperinflazione, qualcosa che ci ricorda l’incubo di Weimar.

 

Certo, quelle immagini di corruzione, violenza, povertà non sono certo quanto attende l’Europa – che già a vissuto quel periodo e ciò che seguì, Germania in testa – ma non è nemmeno il caso di pensare che siamo di fronte a una versione edulcorata della Lost Decade giapponese, per ragioni strutturali e macro. Vent’anni fa, quando scoppiò la bolla del Nikkei, il Giappone era infatti il più grande creditore netto del mondo e il suo risparmio privato era pari al 15% del Pil: questa forza fu il cuscino che permise di far calare quel tasso al 2% a causa della lunga caduta, i paesi sud-europei non hanno questi mezzi.

 

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Usare l’inflazione come arma per uscire dalla bolla degli assets di Greenspan, della bolla del credito di Gordon Brown e di quella del debito sovrano dell’eurozona è una tentazione forte ma pericolosa. I segnali sui mercati sono discordanti ma in molti, ad alti livelli, parlano chiaramente dei bond come rifugio del denaro degli investitori a discapito della Borsa.

 

Per Robin Griffiths, analista strategico di Cazanove, «l’ndice S&P è destinato a un rally finale, entro la prossima settimana, fino a quota 1155 punti, dopodiché vendere l’indice sarà l’imperativo. Siamo in un mercato dell’Orso con parecchie death crosses che segnalano ribassi: le perdite a livello di equities si concretizzeranno già da metà settembre e per ottobre prevedo l’S&P a 940 mentre il Ftse 100 di Londra perderà circa il 15% dal suo valore attuale». Bonds are the place to be, insomma. Bel segnale? Non direi.

 

P.S. Ok, so che non è bello rimangiarsi la parola data ma la tentazione è troppo forte: torno per poche righe sugli stress tests. Solo per dirvi, cari lettori, che sei delle quattordici banche tedesche analizzate – tra cui Deutsche Bank, PostBank, Hypo Real Estate, Dz, Wgz e Landesbank Berlin – non hanno acconsentito a rendere noto i dettagli totali del sovereign debt holdings, ovvero l’esposizione al debito sovrano, come richiesto dal Cebs e come fatto da tutti gli altri istituti sotto esame. La Bafin e la Bundesbank sono state categoriche nel rimandare al mittente le critiche: «In Germania non esiste una legge che obblighi le banche a fornire questi dati» Meravigliosi, davvero. L’ennesima riprova della serietà degli stress tests…

 

P.P.S.S.: Ormai mi sono rimangiato la parola e dico quello che penso. La mancanza di rigore nei criteri degli stress macroeconomici ha condotto a bassi tassi di perdite di portafoglio, anche perché le decurtazioni sui titoli sovrani (haircut) sono state applicate solo ai trading books e non alle posizioni che si dichiara di voler detenere fino a scadenza: questa mancanza di rigore negli scenari di stress elaborati dal Cebs ha prodotto una sopravvalutazione dell’1,7% ai quozienti di capitale Tier 1.

 

Inoltre, il focus su questa grandezza (e non sul Core Tier 1), ha prodotto un abbassamento dell’1,2% del tasso-obiettivo minimo, producendo quindi un bias totale del 2,9% nelle stime dei quozienti di capitale Tier 1. Eliminando questa distorsione si ottiene che 54 banche avrebbero fallito uno stress test più stringente, generando un fabbisogno di ricapitalizzazione compreso tra 60 e 75 miliardi di euro: oggi invece hanno fallito in nove e la necessità di ricapitalizzazione è appena di 3,5 miliardi.

 

Tornando al P.S. precedente, c’è una spiegazione. Il dato “politico” rilevante, infatti, è che le banche tedesche tendono a fare grande uso di strumenti patrimoniali ibridi, che sono parte del Tier 1 (usato negli stress test), ma non del Core Tier 1. Utilizzare quest’ultima grandezza avrebbe creato qualche imbarazzo in Germania, e si è quindi deciso di scegliere la definizione di capitale più ampia, peraltro con un valore-soglia (6%) a dir poco modesto. A ciò si aggiunga l’assoluta presa in giro di differenziare tra titoli sovrani detenuti per finalità di trading e “held to maturity” (ai primi si applica la decurtazione, ai secondi no): ora, giuro, non parlo più di stress tests. Almeno fino alla prossima volta…