Enfasi. Molta enfasi. Da mesi a questa parte qualsiasi decisione venga presa dal quartier generale della Fiat, è comunicata con grande battage, quasi a voler creare una cassa di risonanza perché si senta, se ne parli, provochi polemiche.

Esempi? La chiusura di Termini Imerese, gli operai licenziati perché intralciavano i lavori sulle catene di montaggio, il summit tenuto a Detroit per tratteggiare il futuro del gruppo e varare lo spin off, l’idea di creare una newco per riassumere gli operai di Pomigliano D’Arco (con la nascita di Fabbrica Italia Pomigliano comunicata ieri), l’ipotesi di disdettare il contratto dei metalmeccanici e quella di abbandonare la Federmeccanica.



Per finire, l’annuncio di pochi giorni fa dello spostamento della linea produttiva della futura monovolume, ora indicata con la sigla L0, da Mirafiori alla Serbia. Tutto è stato fatto in maniera plateale, senza cercare di smussare, di ricorrere a qualche dose di diplomazia che forse potrebbe essere utile.

Il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, ha detto in un’intervista a Radio 24 che è soprattutto questo atteggiamento a preoccuparlo, a fargli prevedere giornate cariche di tensione a partire da quella di oggi con l’incontro, convocato dal ministro Maurizio Sacconi, fra governo, azienda e sindacati. Insieme devono discutere del caso Mirafiori e, più in generale, del futuro della Fabbrica Italia, quel progetto presentato nell’aprile scorso dal Lingotto per aumentare il numero di auto prodotte in Italia. Progetto che, dopo l’affaire Serbia, sembra seriamente a rischio.



Ma perché la Fiat ha scelto questa linea? Perché non solo usa il pugno di ferro, ma ci tiene anche a far vedere quanto è forte questo pugno e a far intendere che può colpire molte e molte volte? La riposta è in parte nel carattere dell’amministratore delegato, Sergio Marchionne, abituato a gestire i rapporti in maniera ruvida, ai limiti della brutalità.

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Lo fa con i collaboratori (le sue prime linee vengono sostituite con grande rapidità) e con gli interlocutori in genere. L’innegabile successo che ha avuto in questi anni alla Fiat, salvata da un probabile fallimento, lo ha convinto di essere sulla strada giusta, perché è l’unico metodo per gestire un’azienda portando a casa dei risultati.



 

Questa sua propensione naturale ad andare diritto allo scontro senza far nulla per evitarlo, si è accentuata in questi ultimi mesi per una ragione: il tempo. Marchionne capisce di averne sempre meno: il suo progetto di trasformare la Fiat in uno dei pochi grandi protagonisti a livello mondiale dell’automobile deve essere realizzato molto rapidamente, perché altri stanno già minacciando la sua posizione e se non corre la Fiat rischia di rimanere fuori dai giochi.

 

Paradossalmente questa necessità di accelerare è arrivata proprio assieme ai primi segnali di ripresa del settore automobilistico: la stessa General Motors (data da tutti per defunta soltanto fino all’anno scorso) sta ottenendo risultati finanziari eccellenti. Quindi GM e altri concorrenti che fino a ieri erano (o sembravano) deboli, non sono più tali. Stanno riacquistando forze, sono vivi e vitali sul mercato e puntano a crescere. Sono rientrati in partita.

 

Dunque bisogna fare in fretta a produrre auto di qualità gradite al mercato e ai prezzi più convenienti possibili. Bisogna sfornare nuovi modelli di successo e ottenere decisivi miglioramenti di produttività. Se non lo si può fare a Mirafiori pazienza, lo si farà a Kragujevac o in qualsiasi altro posto al mondo.

 

Se i sindacati (buona parte) e i politici (quasi tutti) non capiscono e si rifiutano di credere che quella dell’auto è davvero diventata un’industria globale e non ne accettano le regole, la Fiat se ne andrà per conto suo. È bene che si sappia, che se ne parli, che se ne dibatta. Ma in fretta. È rimasto poco tempo per le parole, perché i concorrenti intanto hanno già deciso e vanno avanti.