È bastato un dato negativo sugli ordinativi di beni durevoli negli Usa per far girare in negativo le Borse europee e i futures di Wall Street: il placebo degli stress tests è durato poco, quasi nulla. Sono i dati macro a fare la differenza, oltre alle prese di beneficio, i picchi durano un giorno.
Ma al di là delle valutazioni globali sulla ripresa che non c’è, a far tremare più di un investitore ieri è stata la notizia che la crisi del debito europea non è limitata al cosiddetto Club Med ma vede coinvolto – e in maniera tutt’altro che marginale – anche il Belgio, già alle prese con tensioni politiche e minacce di secessione tra fiamminghi e valloni.
Non si tratta di un allarme a tempo ma di una crisi strutturale delle finanze pubbliche messa in evidenza dal report di un istituto indipendente che ha contestato apertamente le previsioni di entrate fiscali del governo e messo in guardia lo stesso riguardo il deficit di budget crescente: insomma, in discussione è la stessa capacità del Belgio di porre le proprie finanze in linea con i requisiti richiesti dall’eurozona.
Senza un innalzamento delle tasse o un drastico taglio della spesa si arriverà a un 5,2% del Pil quest’anno, contro il 4,8% delle previsioni governative. Entro il 2015 la spesa pubblica dovrebbe essere tagliata di 25 miliardi di euro per bilanciare il budget e rientrare nei criteri europei adottati in seguito alla crisi del debito sovrano: come minimo, si tratta di 3 miliardi di euro più di quanto evocato come stretta fiscale necessaria da tutti i partiti durante la campagna elettorale per le elezioni di sei settimane fa.
I tagli alla spesa pubblica di breve termine dovranno essere pari a 1,3 miliardi di euro entro pochi mesi per raggiungere i limiti imposti dall’Ue, una cifra confermata anche del quotidiano finanziario belga L’Echo: manovre dure rese necessarie, sottolinea il report, dalle ultra-ottimistiche previsioni di entrate fiscali da parte del governo precedente.
«In tempi normali prendere decisioni di questo genere potrebbe essere onesto, lineare. Il problema è che oggi non c’è un governo in grado di fare questo», sottolinea Philippe Ledent, economista presso ING Belgium. In effetti, con sette partiti ancora impegnati in colloqui per cercare di formare la coalizione, diciamo che la parola stabilità è ben lungi dal poter descrivere il panorama politico del più europeo degli Stati dell’Ue.
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Il debito nazionale belga è schizzato alle stelle dall’inizio della crisi finanziaria, superando il 100% del Pil all’inizio di quest’anno: solo la Grecia e l’Italia sono messe peggio nell’eurozona. I funzionari delle finanze del Belgio minimizzano, sottolineando come il relativamente basso deficit di budget funzioni come rassicurazione presso gli investitori rispetto al debito sovrano: i bond a 10 anni sono al 3,3%, 56 punti base più alti del Bund tedesco.
Insomma, i Piigs ora potrebbero diventare Pibigs: e la fiera degli acronomi, statene certi, è destinata a proseguire con l’arrivo dell’autunno. Ma se l’Europa deve affrontare guai seri – ieri Mervyn King, governatore della Bank of England, ha parlato chiaramente di un serio rischio inflattivo, con prezzi in continua crescita nel paese – anche altrove arrivano brutte notizie.
In un documento che rappresenta la prima analisi comparativa dell’economia cinese negli ultimi tre anni, il Fondo Monetario Internazionale ha detto chiaramente che la crescita di Pechino continuerà a essere robusta e l’inflazione benigna. Tutto bene, quindi? Non proprio. L’Fmi ha infatti avvertito la Cina rispetto alle nuove sfide che la attendono, prima delle quali la gestione degli effetti collaterali della politica di stimolo che include un pacchetto record da 9.600 miliardi di yuan (circa 1.000 miliardi di euro) di prestiti dalle banche cinesi: il totale è esattamente il doppio di quanto registrato nel 2008.
Per l’Fmi è necessaria un vigilanza di regolamentazione e supervisione che si occupi di valutare eventuali deterioramenti della qualità del credito, oltre che stimolare maggior trasparenza nei prestiti alle autorità locali. D’altronde, sono gli stessi funzionari governativi cinesi a parlare di forte rischio di default per molte banche del paese riguardo almeno un quinto dei 7.700 miliardi di yuan prestati ai governi locali: almeno 1.550 miliardi di yuan sono stati giudicati “complicati” dalla China Banking Regulatory Commission.
Dagong Global Credit Rating, un’agenzia di rating privata, ha già duramente attaccato la politica di valutazione data ai veicoli di investimento dei governi locali: ovvero, i richiedenti prestiti legati alle autorità governative fanno una sorta di shopping per ottenere i migliori rating dalle agenzie e chiunque garantisca loro una migliore valutazione, ottiene il contratto: «Tutto questo è tremendamente pericoloso», ha dichiarato Guan Jianzhong, presidente di Dagong.
Per Stephen Green, economista di Standard Chartered, il book dei prestiti cinesi rimane tuttavia sotto controllo: «Aggiungendo tutti i prestiti, si ottiene una figura pari all’80% del Pil, una percentuale di assoluta sopravvivenza in un’economia che cresce del 10% l’anno. I problemi possono esserci a livello locale, dove alcune autorità hanno accumulato più di quanto possano gestire ma a livello nazionale la situazione non è male».
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Già, non è male: ma se l’Fmi conferma la crescita del 10%, moltissimi analisti parlano di una netta frenata – confermata da alcuni dati macro, export e traffico cargo soprattutto – e di una crescita del 7%. Sempre siderale, ma in quel caso quell’80% del Pil va rivisto nel suo impatto. E non di poco.
C’è poi la questione monetaria, visto che l’Fmi ritiene tuttora il renmibi sottovalutato tra il 5 e il 27 per cento, un’accusa a cui le autorità cinesi si sono rifiutate di rispondere ma che fa riflettere rivedendo i dati di export. Dati che, comunque, per il Fondo sono eccessivamente sbilanciati: occorre quindi un renmibi più forte al fine di garantire un ribilanciamento dell’economia globale che non può prescindere dall’oligopolio cinese sulle esportazioni grazie al dumping monetario.
D’altronde, il calo per tre giorni consecutivi de prezzo del petrolio parla la lingua di una crescita rallentata, soprattutto nelle due principali economie acquirenti di oro nero: Cina e Usa. Per Christophe Barret, analista di commodities per Credit Agricole CIB a Londra, «le notizie macroeconomiche e le paura di una recessione double-dip stanno guidando questo sentimento di sfiducia che porta a corsi ribassisti». Insomma, lungi dal guardare agli stress tests come a degli indicatori credibili, è la ripresa globale a parlare la lingua di uno sforzo inutile che non riesce a concretizzarsi nonostante i fiumi di denaro spesi negli stimoli. E, anzi, a mandare segnali contrastanti di recessione e rischio iper-inflattivo nel breve-medio termine.