Le piccole e piccolissime imprese hanno accolto con favore la recente adozione da parte del Consiglio dei Ministri dei principi dello Small Business Act (Sba), con l’auspicio che non restino solo un cumulo di buoni propositi. Oggi, per imprenditori e artigiani, è giunto il momento di verificare che il decalogo si traduca realmente in rinnovato slancio per le Pmi.
Ne parliamo con Francesco Cacopardi, direttore del Centro Studi e Ricerche Luigi Gatti di Apa Confartigianato Imprese Milano, Monza e Brianza. L’istituto, infatti, tra le altre, cura da anni indagini congiunturali periodiche sulle imprese piccole e artigiane per diverse province ed è l’unico in Italia a monitorare le dinamiche produttive e le problematiche di aziende sotto i tre dipendenti.
Dottor Cacopardi, il primo obiettivo dello SBA è migliorare l’approccio politico globale allo spirito imprenditoriale. Come giudica l’Italia quanto a gratificazione della verve di chi sceglie di mettersi in proprio?
Dalle rilevazioni del nostro Osservatorio emerge un Paese doppio. C’è chi rischia del suo: sono i lavoratori autonomi, il popolo che non si definisce precario se non ha un contratto a tempo indeterminato. Poi c’è un’altra Italia dove la mancanza di sicurezza è semplicemente non concepibile, in nessuna delle tappe della vita. Lo Sba vuole intercettare e rimettere in moto questa seconda Italia, che spesso ricopre ruoli di responsabilità istituzionale e normativa. L’obiettivo da centrare è dar vita a un contesto in cui imprenditori e imprese familiari possano prosperare e che sia gratificante per lo spirito imprenditoriale.
Da dove si può cominciare?
Sicuramente dalla scuola, un plotone di 1milione e 100mila dipendenti, la terza azienda a livello mondiale dopo il governo cinese e l’esercito americano. È qui che, dalle elementari all’università, quando si parla d’impresa, ci si riferisce sempre e soltanto a grossi marchi. Questo genera nei ragazzi un’unica aspirazione, di trovare un’occupazione in una di queste realtà (quelle, per intenderci, degli spot televisivi). Come dato sintomatico vorrei citarne solo uno che arriva dagli Stati Uniti: il 61% degli americani vorrebbe mettersi in proprio, mentre in Italia la percentuale scende al 43% (per non parlare del Sud che segna un picco negativo del 30%).
Come questo problema riguarda direttamente la scuola?
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Una nostra recente ricerca condotta sugli Istituti Tecnici ha evidenziato che il 70% dei docenti non ha mai messo piede in un’azienda. Mi chiedo: come può educare alla propensione al rischio un insegnante che identifica il mondo del lavoro con il luogo più protetto in assoluto che è la dipendenza statale? Un’altra esemplificazione, sull’utilizzo del tempo, fattore decisivo per chi ha un’attività in proprio. Qual è il collegio docenti (costituito più o meno da un centinaio di insegnanti a Istituto) che ha coscienza, mentre discute di formalità o dettagli organizzativi, del costo effettivo che quel tempo ha per la collettività? È chiaro che chi non percepisce il valore anche economico del tempo, difficilmente potrà far capire ai ragazzi che lavorare non è questione di farsi occupare le ore dal titolare, ma di rispondere a uno scopo reale, concreto, che è il benessere di sé e di tutta l’impresa.
Anche le famiglie hanno una parte di responsabilità?
Quanto alle famiglie, il problema culturale si pone esattamente negli stessi termini. Basti pensare che un figlio che lavora in una multinazionale è stimato di più che se fosse occupato presso le officine metal-meccaniche del signor Brambilloni. Eppure siamo il Paese con la più alta densità di piccole imprese al mondo… Ne abbiamo un esempio evidente in Brianza, dove il rapporto è di un’impresa ogni dieci abitanti.
«Pensare anzitutto in piccolo» è lo slogan dello Small Business Act. Concretamente qual è il principale indicatore per monitorare eventuali passi in avanti a favore delle Pmi?
Il tasso di oneri amministrativi e normativi. Dalle nostre ricerche risulta che se una grande impresa spende 1 euro per dipendente per soddisfare gli obblighi di legge, le piccole arrivano a bruciarne fino a 10. A livello europeo, il 36% delle Pmi sostiene che, negli ultimi 2 anni, le formalità burocratiche hanno arrecato danno all’attività economica. Il risultato italiano è ancor più allarmante: il 60% lamenta difficoltà pesanti, fino al fallimento.
In un periodo di crisi strutturale come questo, arranca sia la piccola che la grande impresa. Chi è meno strutturato, però, è ancor più esposto al rischio del fallimento. A suo parere, qual è il peggior nemico delle Pmi?
Senza parlare di nemici, direi che un grave problema per i piccoli è costituito dalle banche. Si è rotto il rapporto fiduciario tra istituti di credito del territorio e sistema produttivo locale, è questo il germe che sta minando la stabilità dei piccoli. Gli artigiani ribadiscono sempre la stessa questione: «Sono un imprenditore con meno di una decina di dipendenti, non ho mai chiesto aiuto alla banca e adesso che ho bisogno, invece di sostenermi, mi si toglie anche il poco che ho chiesto». Ma, attenzione, questa è solo la tappa finale di un processo che, a nostro avviso, ha origini più lontane. È qui che lo SBA potrebbe svolgere un ruolo importante.
Cioè?
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La domanda che ci si dovrebbe porre è: «Perché si accede alle banche?». Ora come ora, non certo per un processo virtuoso che ricerca finanziamenti per idee innovative o prospettive di sviluppo. La necessità cronica di risorse finanziarie è dovuta ai ritardi infiniti nel pagamento da parte della Pubblica Amministrazione o per la strozzatura di grandi aziende. I dati europei ci dicono che le Pmi devono attendere tra i 20 e i 100 giorni per farsi pagare le fatture; in Italia il 50% delle imprese supera i 120 giorni d’attesa, mentre il 25% addirittura i 180. Gli Istituti di Credito lucrano su quest’inefficienza, e questa non è certo una prassi tipica di un sistema economico virtuoso. Ma se Stato e grandi aziende pagassero in tempo il dovuto, il piccolo imprenditore andrebbe in banca solo per nuovi investimenti. È a questo livello che si colloca la grave responsabilità delle Istituzioni.
Uno dei punti del decalogo dello Small Business Act è dedicato alla cosiddetta “Seconda Possibilità”. Perché tanto riguardo per chi ha fallito?
Per spezzare una dinamica crudele, che non perdona chi si è assunto un rischio, forse più grande delle proprie possibilità. Bisogna punire i recidivi che lucrano sui fallimenti, ma lasciare una speranza alla gran maggioranza degli imprenditori onesti che hanno fatto male i loro conti. A livello europeo, i fallimenti costituiscono circa il 15% di tutte le chiusure. Eppure la stigmatizzazione della sconfitta è tuttora presente, tanto che il 47% della popolazione è riluttante a effettuare ordinazioni a imprese precedentemente fallite. Non parliamo dei tentativi di ripartire: una procedura di fallimento richiede in media tra 4 mesi e 9 anni. In Italia solo il 4,6% delle procedure si chiude entro l’anno, mentre il periodo medio è di quasi 3 anni. Ricordo solo un dato che non ha bisogno di commenti: il 42% dei fallimenti dichiarati nel 2001 risulta a oggi ancora aperto.
Introiti importanti sono assicurati alle imprese dalle grandi opere pubbliche, mentre le Pmi lamentano l’impossibilità di accedere a tali appalti. Con l’attuazione dello SBA potranno cambiare realmente le cose?
La questione è di primaria importanza se si considera che gli appalti pubblici rappresentano il 16% del Pil dell’Ue. Ma solo il 14% è vinto da aziende che contano meno di tre dipendenti. A questo proposito, terrei a chiarire che non vogliamo che si aiutino i piccoli finendo col pagar di più quello che si potrebbe avere a meno. Chiediamo agevolazioni alle Pmi perché crediamo che, una volta garantite nel pagamento in tempi ragionevoli, anche le micro aziende possano tranquillamente competere con l’economia di scala.
A quale livello la Pubblica Amministrazione potrebbe intervenire in tempi rapidi?
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C’è almeno un aspetto di questa questione che potrebbe essere risolto con estrema facilità: rendere i bandi comprensibili alla gente comune. Perché il problema sta proprio a questo livello elementare! Sfido chiunque a comprendere “Disposto Reiterato Congiunto” o altre espressioni del “burocratese” che non fanno che allontanare i non addetti ai lavori.
Si fa tanto parlare di ambiente e Green Economy. Le piccole imprese sono attrezzate per recepire le innovazioni del settore energia?
Solo il 29% delle Pmi ha introdotto misure per risparmiare energia o materie prime, contro il 46% delle grandi imprese, e la percentuale peggiora ulteriormente se confrontiamo i dati circa la dotazione di sistemi completi per l’efficienza (con un 4% dei piccoli rispetto al 19% dei grandi). Anche a questo livello, chi conosce gli artigiani sa che una giustificazione per questo risultato c’è: la politica, negli incentivi sull’abbattimento energetico, fa i conti solo con imprese patrimonializzate, mentre il possibile risparmio energetico si ritorce sulle piccole come un ulteriore aggravio di costo.
(Roberta Cassina)