Nel suo ultimo numero l’Economist dedica la copertina e il suo servizio principale alla cosiddetta “Cyberwar”, ovvero il rischio che i terroristi, oggi, non necessitino più di esplosivo per portare avanti la loro guerra contro il “Grande Satana”: basta internet, bastano i software, bastano hacker in grado di mettere fuori uso centrali elettriche o nucleari, infrastrutture, aeroporti, centri di controllo e, non ultime, le Borse mondiali.
L’intelligence Usa sta trattando con grande attenzione la questione e le risorse spese in questa nuova forma di anti-terrorismo sono ingentissime, sia a livello economico che umano: insomma, ciò che ilsussidiario.net aveva scritto lo scorso 4 giugno.
Ora, sono però altre le minacce più imminenti per i mercati e le economie mondiali: prima fra tutti il Black Tuesday che si concretizzerà oggi in un crollo generalizzato delle Borse, almeno stando alle analisi dei grafici che ci mostrano – ad esempio – per il Dow Jones un modello di andamento pressoché identico ai crolli della Grande Depressione: la scorsa settimana l’indice ha perso il 4,5% chiudendo a 9686 punti, un livello che concretizza il modello “testa e spalle” che si prefigura con l’indice sotto quota 9800.
Già venerdì il dato sul calo degli occupati negli Usa, il peggiore da ottobre, aveva scatenato una serie di vendite di massa che avevano azzoppato i titoli finanziari e industriali trascinando al ribasso l’indice Standard&Poor’s: il quale, stando alle analisi di chi studia i grafici, sta per entrare nella cosiddetta posizione di “death cross”, un modello che pone in relazione incrociandoli il valore medio del 200mo giorno con quello del 50mo di contrattazioni, un chiaro segnale da orso.
Per molti il weekend può aver fatto maturare in tanti investitori la decisione di vendere, data anche la mancanza di notizie positive sul fronte finanziario ed economico che fungano da catalizzatore: insomma, la mattina di quest’oggi potrebbe essere da incubo. Tanto più che nonostante ieri Wall Street fosse chiusa, i mercati guardano all’Europa come principale fronte di crisi: l’andamento altalenante, tipico di corsi che non sanno quale direzione prendere per mancanza non solo di indicatori ma soprattutto di fiducia, dell’apertura di contrattazioni di ieri tradiva un nervosismo che neppure l’indice Vix sa registrare.
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Se a questo uniamo le ultime notizie che giungono dagli Usa, c’è da rendersi conto del fatto che ormai la situazione è degna del 1932: Oltreoceano sono in piena recessione. Le vendite di casa calano, quelle al dettaglio di beni anche, gli ordinativi industriali a maggio hanno vissuto il peggior tonfo da marzo dello scorso anno: e cosa fa il governo Obama? Parla, si occupa di regolamentare i derivati, si strappa le vesti per il petrolio nel Golfo del Messico, ma non fa nulla per evitare che il paese sprofondi, trascinando con sé anche l’Europa.
La California, ad esempio, fa sembrare la situazione greca quasi rosea: i lavoratori statali hanno dovuto accettare una decurtazione degli stipendi del 14% quest’anno, 200mila dei quali si ritroveranno con il salario minimo di 7,25 dollari l’ora in ossequio alla politica di austerity necessaria a coprire il deficit di 19 miliardi di dollari. L’Illinois non sta meglio: il deficit statale è di 12 miliardi di dollari e 5 miliardi di tagli sono a carico di scuole, asili, centri di assistenza sociale e prigioni: «Non stiamo pagando i conti per servizi assolutamente essenziali, questo è osceno», ha dichiarato Daniel Hynes, uno dei revisori contabili dello Stato.
Negli ultimi due mesi, oltre un milione di americani è stato espulso dal mercato del lavoro: il problema è che questo scenario è figlio di diciotto mesi di tassi a zero, stimoli fiscali e politica di quantitative easing, tutte scelte che hanno portato il deficit sopra il 10% rispetto al Pil. La percentuale di americani in età lavorativa occupati è scesa a giugno al 58,5% dal 58,7%, un chiaro indicatore di stress visto che la ratio tre anni fa era del 63%: in questo lasso di tempo sono stati persi otto milioni di posti di lavoro.
Il tempo medio necessario per trovare un lavoro, negli Usa, è oggi di 35,2 settimane, un dato incredibile in un mercato del lavoro libero e flessibile come quello Usa, tanto è vero che numeri simili non si era mai visto dalla fine della Seconda Guerra mondiale: durante la recessione dei primi anni Novanta, il tempo medio era di 21,2 settimane. Lo stimolo fiscale voluto da Washington sta esaurendosi, ha avuto un picco nel primo trimestre ma nonostante questo l’economia è cresciuta solo del 2,7%: durante la recessione dei primi anni Ottanta, i quattro trimestri registrarono tassi di crescita relativamente del 5,1%, 9,3%, 8,1% e 8,5%.
Il numero di persone che hanno stipulato contratti per l’acquisto di casa nel ,mese di maggio è crollato del 30%, «un cataclisma», ha dichiarato David Bloom di Hsbc. Il Congressional Budget Office ha detto a chiare lettere che la politica fiscale passeta da un +2% netto del Pil a un -2% alla fine del 2011: questo significa che stati e contee dovranno tagliare per almeno 180 miliardi di dollari. Inoltre, le speranze che per un po’ hanno mantenuto su i mercati di una ripresa trainata dall’Asia, sono finite.
L’indice manifatturiero cinese è continuato a scendere da gennaio, con una contrazione record di giugno a 50,4, poco al di sopra del punto di break-even fissato a 50: ovunque, segnali di crisi, nei permessi di costruzione in Australia, nell’export turco, nell’output industriale giapponese. La Fed, ormai è chiaro, è pronta a far partire l’operazione QE2, ovvero una nuova politica di denaro a pioggia, quel quantitative easing che fino a oggi ha fatto registrare risultati pari a zero.
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Per Dennis Lockhart della Fed di Atlanta, «è giusto cominciare a pensare cosa fare in uno scenario di deflazione»: comunque, i pro e contro di un politica di acquisto dei bonds sarà soggetta «a un rigido scrutinio», ha confermato Kevin Warsh, sempre della Fed di Atlanta. Nonostante questo, la scorsa settimana la Banca per i Regolamenti Internazionali ha lanciato un appello per una politica restrittiva combinata a livello monetario e fiscali, una sorta di benedizione alle richieste del partito debito-deflazione e della disoccupazione di massa: evviva, anche la Bri ha perso la testa.
Non l’ha persa in facili ottimismi, invece, Jacques Cailloux di Rbs che venerdì scorso in un outlook ha chiaramente lanciato una “double-dip alert” per l’Europa: «Il rischio sta salendo molto velocemente. Senza una seria politica di intervento per contrastare la crisi del debito nei paesi periferici nei prossimi mesi, l’economia europea sarà in double-dip già nel 2011».
E non stupisce, quindi, l’atteggiamento tedesco di fronte al rischio di instabilità politica palesato dalla querelle sulla scelta del candidato presidente: venerdì Der Spiegel raccontava di un netto no dei governi europei a stress tests sul rischio di default sul debito sovrano. Come dire, qualcuno ha qualcosa da nascondere: una manna oer gli speculatori, musica che fa danzare i cds. Le disgrazie altrui, a volte, sono i migliori auspici.
Che fare, quindi? Ieri una previsione per i mercati elaborata da Cnbc per i prossimi mesi lanciava un unico avvertimento: take cover. Speriamo sia sufficiente. Io ne dubito fortemente. Basti guardare il livello del Vix, pressoché stabile a quota 30 (durante la crisi Lehman era a 80, durante quella greca a 46), ma incapace del kick-start a tre mesi per gli indici: dopo il picco del caso Lehman, in 180 giorni lo Standard&Poors crebbe del 2,34%, dopo l’attacco alle Torri Gemelle addirittura del 16%, dopo lo scoppio della bolla dotcom dell’11,3%.
Oggi, a tre mesi dal caso Grecia e debito sovrano, siamo a +0,25% di crescita dell’indice. Piaccia o non piaccia, la seconda ondata di crisi che stiamo vivendo è sistemica. E più cattiva e pericolosa della prima.
P.S. (update del 6 luglio 2010): le previsioni dei grafici non si sono avverate, ammettiamolo. Nessun crollo. In compenso, però, paradossalmente l’euforia dei mercati di ieri offre conferme alle tesi dei pessimisti: le frecce all’insù degli indici, infatti, sono per la gran parte dovute a copertura di shorting, ecco spiegato l’exploit del settore bancario. Il quale, però, gode anche delle voci artatamente messe in circolazione riguardo il fatto che la grandissima parte degli istituti europei avrebbe superato brillantemente gli stress tests i cui risultati saranno resi pubblici il 23 luglio prossimo.
Il fatto che Jean-Claude Trichet abbia dichiarato che incontrerà i vertici delle principali banche prima della pubblicazione dei dati, di fatto, ha inviato al mercato un segnale di fiducia. Artificiale ma di fiducia. Ma per Philippe De Vandiere, analista di IG Markets interpellato da Cnbc, «gli investitori continuano a rimanere molto cauti e dovrebbe attenderci sul breve una variazione dei corsi. C’è poi una mancanza di trasparenza in questi stress tests e la gente continua e vedere come troppo ottimistiche le previsioni per la earning season».
Attenzione, poi, a leggere bene i rialzi tra le righe: ieri a Londra, il titolo di British Petroleum era sugli scudi. Peccato che lo fosse perché divenuto appetibile e quindi terminato sulla lista “buy” di molte banche per la quasi certa scalata o comunque l’ingresso forte di nuovi azionisti a fronte del crollo del valore del titolo stesso dopo il disastro nel Golfo del Messico. Siamo, insomma, nel campo dei “bargain hunters”: non esattemnte qualcosa di ciclico o strutturale, insomma.