Non c’è più l’assalto alla diligenza, perché la diligenza è vuota. E ora chi vi si era accomodato si scapicolla per scendere. In modo perfino poco dignitoso. Regioni, industriali, enti culturali, province: nessuno ha mostrato di comprendere appieno la serietà della situazione finanziaria italiana e nessuno ha mostrato quella responsabilità obbligatoria in una fase così delicata per la tenuta del ruolo dell’Italia nel contesto internazionale.



Esagerato? In una sola settimana la differenza di rendimento tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi è passata da 90 a 180 punti (il massimo da sempre) con un costo ulteriore per le casse statali di 18 miliardi di euro, cioè circa la metà della manovra in discussione. Sono numeri che occorre tenere a mente non perché ci si deve rassegnare a essere governati dagli umori della finanza, ma perché quando si contraggono debiti (e noi li abbiamo contratti in abbondanza) occorre convincere il creditore di essere in grado di ripagarli. Non occorre dire cosa succederebbe nel caso in cui qualcuno in qualche sala operativa cominciasse a dubitare di questa nostra capacità.



Di fronte a questa situazione è francamente sconfortante assistere al fuggi-fuggi generale dal conto che la storia ci presenta come se nessuno degli enti che oggi protestano contro i tagli fosse mai stato beneficiato dalla larghezza delle concessioni che la politica ha concesso. E ancora più sconfortante è il fatto che nessuno tra coloro che si candidano a guida morale del Paese (sindacati, imprenditori, politici, magistrati, ministri) abbia colto il livello della sfida che l’Italia ha di fronte a sé.

Dopo aver assaltato la diligenza, ora vogliono scendere smontando una manovra che, con i suoi difetti, aveva il merito di cominciare a disboscare la foresta di sprechi che immobilizza l’economia, premia i peggiori, riduce la competitività delle imprese migliori.



Quella che era nata come una manovra fatta soprattutto di tagli si sta trasformando in un guazzabuglio di norme senza alcun filo logico anche a causa di un poco commendevole balletto di refusi, emendamenti presentati e ritirati che fanno nascere il dubbio di un certo dilettantismo parlamentare. Alla fine si dà all’esterno l’impressione di un Paese governato da piccoli e grandi interessi di piccole e grandi lobbies in grado di condizionare/modificare una manovra economica essenziale la credibilità finanziaria del Paese. L’immagine della sala da ballo del Titanic è fin troppo facile, ma rende bene l’idea.

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Solo due esempi. Dire, come fa il presidente delle Regioni italiane, l’emiliano Vasco Errani, che “per svolgere le funzioni a noi attribuite servono 4,9 miliardi, se nel 2011 ci tagliano 4 miliardi, non siamo più in grado di esercitarle” equivale a sostenere che non ci sono spazi di riduzione dei trasferimenti pubblici agli enti locali, compresi quelli per la spesa sanitaria. È credibile? È serio?

 

E quando Confindustria e Rete Imprese si scagliano contro una contrazione della possibilità di compensare debiti e crediti fiscali (ottenendo ascolto) dimenticano di dire che questa facoltà è quella che rende possibili le frodi Carosello che la Guardia di Finanza scoperchia al ritmo di un paio ogni settimana in tutto il Paese.

 

La protesta di Confindustria contro la norma che prevede fino al pignoramento dei beni delle imprese prima ancora del giudizio di primo grado in una controversia fiscale è giusta (infatti è stata accolta) così come è giusta la richiesta di minori tasse sulle aziende.

 

Ma Confindustria sarebbe più credibile, e acquisirebbe quell’autorità morale della quale si sente comunque investita, se, come ha lodevolmente fatto per lottare contro il fenomeno mafioso, varasse una profonda pulizia al suo interno, iniziando almeno a sospendere dall’organizzazione gli industriali colti a non rispettare le norme fiscali vigenti o che hanno perso il primo grado di giudizio in un contenzioso con l’Agenzia delle entrate. Potrebbe iniziare dai suoi stessi vertici.

 

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