Due numeri dovrebbero aprire e chiudere la questione: 30 e 60. Trenta per cento è la differenza media tra l’acqua captata e quella fatturata, cioè il livello medio delle perdite. Una goccia d’acqua su tre, nel nostro paese, va perduta in una rete idrica bisognosa di manutenzione e carente di investimenti.

Per tappare le falle e rispondere a una domanda sempre più (giustamente) esigente in termini di qualità, si calcola che servano, complessivamente, circa 60 miliardi di euro di investimenti, specie nelle aree dove la situazione è più compromessa o la qualità del servizio è meno soddisfacente – sia dal punto di vista della purezza dell’acqua potabile, sia da quello delle infrastrutture di depurazione dei reflui.



Le perdite sono dovute in parte al deterioramento dei tubi, in parte alla presenza – specie nel Sud – di allacci illegali. Entrambi i problemi, in realtà, derivano da una comune matrice: l’assenza di reali incentivi, per i gestori delle infrastrutture, a garantirne il corretto funzionamento.

Il problema principale che il nostro paese si trova ad affrontare nella gestione dei servizi idrici, dunque, riguarda la necessità di creare una cornice normativa, regolatoria e di incentivi che sia capace di (a) indurre una governance efficiente e (b) stimolare gli investimenti necessari in un contesto in cui la raccolta dei capitali sia possibile.



Il contestato decreto Ronchi cerca appunto di muovere il paese in questa direzione, facendo un passo necessario – anche alla luce degli obblighi comunitari – ma non sufficiente. Di per sé, peraltro, esso non impone alcuna “privatizzazione” di alcunché. Come ha spiegato Antonio Massarutto su queste pagine, il decreto Ronchi impone semplicemente l’affidamento della gestione dei servizi idrici tramite gara, facendo pulizia delle troppo (e poco trasparenti) procedure di affidamento diretto. Alle gare possono presentarsi indifferentemente soggetti pubblici e privati.

Da questo punto di vista, il decreto Ronchi fa la cosa giusta ma manca della necessaria determinazione – anche se, forse, fa il massimo che si potesse fare, dati i vincoli politici e le enormi resistenze. Da un lato, tenta di iniettare maggiore disciplina finanziaria attraverso norme che incentivano la partecipazione privata all’azionariato delle municipalizzate. Dall’altro, allude a una regolazione indipendente, ma non arriva a predisporre la creazione di un’autorità ad hoc (o soluzioni equivalenti, come il trasferimento delle competenze sul ciclo idrico integrato all’Autorità per l’energia).



Il problema è, allora, duplice. In primo luogo, finché la regolazione (inclusa la determinazione delle tariffe e la decisione di quali investimenti vadano effettuati e quanto e come remunerati) resterà in mano, direttamente o indirettamente, ai sindaci, la politica avrà l’ultima parola. Secondariamente, e cosa più importante, non viene sanato il conflitto di interessi che vede i comuni, contemporaneamente, banditori delle gare e parte in causa (in quanto azionista di un partecipante). Sarebbe ingenuo pensare che tale conflitto di interessi non abbia conseguenze.

 

L’esperienza dimostra, in effetti, che le conseguenze ci sono, eccome. La Fondazione Mattei ha condotto un’indagine sulle municipalizzate, trovando che – in generale – l’efficienza aumenta quando passano da pubbliche a private. L’efficienza con cui le aziende sono gestite non ha nulla a che fare con le discussioni più o meno campate in aria sull’acqua che non è una merce. Quanto meno perché la decisione politica di erogare l’acqua gratuitamente a tutti, o ad alcune fasce d’utenti, o per alcuni pattern di consumo, è ortogonale al modo in cui la filiera industriale è organizzata.

 

Sotto il profilo tariffario, la scelta è se spalmare i costi sugli utenti, oppure spostarne una parte sulla fiscalità generale. Sotto il profilo organizzativo, la scelta è tra un sistema che ha dentro di sé una serie di pesi e contrappesi i quali dovrebbero garantire un certo rigore, e un sistema che si basa sulla fede cieca nella bravura dei manager pubblici e dei burocrati che li sorvegliano. Nel primo “mondo” il controllo è automatico, nel secondo è affidato alla buona volontà di alcuni individui e, comunque, implica una maggior dose di arbitrio.

 

Quando e se gli italiani saranno chiamati a votare il referendum, dovrebbero capire che il quesito reale sarà molto diverso da quello che gli verrà illustrato nella propaganda. Essi non voteranno sulla “privatizzazione” dell’acqua: voteranno sulle modalità di affidamento del servizio. E la scelta sarà brutale: volete lasciare l’acqua al mercato, oppure assegnarne il controllo ai politici? Volete immaginare una soluzione possibile agli attuali problemi – che magari non funzionerà, ma magari sì – oppure conservare le cause che li hanno determinati?