Tra le commodities che agitano i mercati di questi tempi, ce n’è una dall’origine tutta europea: le regole. Guardando alla storia dell’Unione, i mercati UE, fin dagli esordi della CECA, sono nati e cresciuti all’ombra di trattati, vertici e regolamentazione. E sopratutto grazie a quest’ultima, declinata in forma di direttive, le aree di commercio comune si sono fatte strada tra leggi e consuetudini nazionali.



Nel caso del carbone e dell’acciaio, l’intuizione post-bellica portò i principali paesi europei a condividere una produzione strategica con l’obiettivo di scongiurare l’ennesima – disastrosa – corsa agli armamenti. Nei mercati finanziari a poco è servito caricare gli operatori di regole sovranazionali e, anzi, le innumerevoli normative sul settore si sono incenerite come combustibile ai fuochi della crisi. Perché?



Guardando alle curve dei tassi di interesse dei principali paesi europei tra il 2004 e il 2010, il primo elemento che salta all’occhio è una linea di separazione netta. È lo spartiacque che sul finire del primo semestre 2008 spacca il grafico in due aree distinte. Nell’area precedente alla frattura, i principali paesi dell’Unione (Germania, Francia, Belgio, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia) si muovono all’unisono lungo una curva di tassi che nel punto di massima divergenza tra due paesi crea una forbice di soli 25 punti base (0.25%) dalla media europea.

Nella fascia post-giugno 2008, la curva esplode e i tassi nazionali prendono ciascuno la propria strada. Il costo di finanziamento per Germania e Francia, come prevedibile, si alleggerisce notevolmente, mentre i tassi di interesse di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna – le economie foraggiate a debito – si alzano fino a raggiungere il 12% per la Grecia (contro il 2,5% della Germania).



Arroventati dalla crisi di liquidità, i mercati monetari hanno sciolto l’Unione Europea come la proverbiale neve al sole. E il fenomeno sembra avere una spiegazione quasi scontata: a salvare le banche dalla tecnofinanza sono stati gli stati nazionali, non l’Unione. Quest’ultima, avvinta al dogma della concorrenza ovunque-comunque, non ha reagito neppure quando un’agenzia di rating declassava il merito creditizio della Grecia, seminando, se possibile, ulteriore panico sul mercato.

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Si poteva giocare la carta degli eurobond: una possibilità ventilata alle prime avvisaglie di frattura nel terreno dell’Unione. Si trattava di titoli di debito da emettere a livello comunitario con l’obiettivo di rimarcare l’unità monetaria e la qualità creditizia del gruppo UE nel suo insieme.

 

Ma nulla si fece. E a quel punto agli operatori finanziari (e non solo a loro) fu chiaro che le uniche entità ancora capaci di una mossa politica – e che mossa: il salvataggio con denaro pubblico di interi sistemi bancari – erano i vecchi (e bistrattati) stati nazionali.

 

Il resto è storia di questi giorni. Passata la prima bufera al riparo delle nazioni, oggi si torna a parlare di Europa e di banche. Lo si fa in un dibattito volto a discutere una nuova regolamentazione bancaria, norme e tributi da applicare nelle intenzioni all’intero perimetro europeo. Ma la crisi finanziaria è troppo eterogenea per risolversi in una ricetta unica. Vale la pena di chiedersi: come applicare nei fatti la stessa soluzione a economie bancarie così diverse?

 

Per comprendere quanto sia difficile tradurre in pratica questi nuovi principi, è sufficiente prendere ad esempio la tassa sulle transazioni finanziarie proposta dall’Unione Europea al G20 di Toronto. L’idea parte da un’intenzione nobile (anche se non nuovissima): tassare le transazioni scoraggerebbe innanzitutto la finanza derivata, quella montagna di contratti che richiede poca o nessuna liquidità per iniziare ma che, a operazione conclusa, si traduce spesso in guadagni (o perdite) consistenti.

 

Una volta inserita la tassa sulle transazioni, tutte queste operazioni di “carta contro carta” (definite, in gergo, operazioni sintetiche) andrebbero a generare un fabbisogno di cassa a ogni passaggio. E la prospettiva di un esborso tributario negli scambi rallenterebbe a sua volta la velocità dell’intero sistema finanziario, introducendo nel circuito globale un attrito di natura fiscale. Tanto accadrebbe, nella scienza delle finanze.

 

Ma come per tutte le commodities, anche per le regole UE, l’opportunità di vantaggi asimmetrici è sempre in agguato. Come vincolare, per esempio, ogni paese dell’Unione all’introduzione della norma tributaria? Sarà sufficiente la defezione di un paese europeo o il calcolo opportunista di un paese terzo per aggirare la normativa su scala globale. Immaginare un accordo a livello planetario è semplicemente velleitario e, per certi aspetti, controproducente. Una domanda su tutte: chi si farà garante e supervisore di tale regolamentazione?

 

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A oggi gli unici due esempi funzionanti di accordo finanziario globale (anche se ad adesione volontaria) sono entrambi governati da comitati tecnici che non devono rispondere ad alcun elettore: si tratta del comitato per la creazione di standard contabili internazionali (IAS) e il comitato di Basilea per la regolamentazione bancaria internazionale.

 

Senza entrare nei dettagli, il primo – tra gli innegabili vantaggi apportati ai sistemi contabili internazionali – ha comunque scardinato quell’ordine per certi aspetti cartesiano che regnava sulla ragioneria “a partita doppia” in favore di una contabilità più volatile e pragmatica, di chiaro stampo anglosassone []. Il secondo, il comitato di Basilea, incentivando l’uso estremo di modelli econometrici e di valutazioni a valori di mercato [], ha contribuito ad amplificare le oscillazioni dei cicli economici all’ennesima potenza.

 

Immaginare il ritorno a un passato privo di tecnicismi – quasi si trattasse di una mitica età dell’oro – è altrettanto velleitario. Tuttavia, un primo passo verso una convalescenza finanziaria potrebbe essere più semplice di quanto si pensi: basterebbe che le banche, paradossalmente, tornassero a fare le banche.

E con fare “banca” si intende la vocazione classica degli istituti di credito all’intermediazione. Quell’intermediazione a cui le banche sono venute meno nel momento in cui hanno iniziato a distribuire sul mercato i rischi che avevano generato. Per intermediare, infatti, il primo requisito necessario è assumersi un rischio. E tenerlo a bilancio.

 

Con una norma del genere, il celebre Glass-Steagall Act, l’America riuscì a sbrogliare la crisi del ‘29, garantendo alla finanza internazionale settant’anni di relativa tranquillità. Chissà se, dopo una buona rispolverata, questo meccanismo degli anni ‘30 non funzioni ancora.

 

[1] Si veda, a titolo di esempio, la quantità di derivati che secondo tale approccio finisce “fuori bilancio” poiché profitti o perdite andranno a conto economico in data futura.

 

[2] Riferimento ai famosi “mark to market” che permettono di modificare il valore dei titoli a bilancio secondo le fluttuazioni di mercato.