Terminato l’effetto placebo dell’asta dei titoli di Stato spagnoli a dieci anni e delle coperture di short di martedì, ieri le Borse hanno festeggiato raccontandosi l’una con l’altra la favoletta che le banche europee scoppiano di salute, sono ben capitalizzate e hanno superato agilmente gli stress tests (di cui ieri sono state rese note le patetiche modalità di funzionamento, una farsa).



La realtà, però, è un’altra. Ovvero, che gli istituti di credito europei stanno vendendo le loro riserve auree alla Banca per i Regolamenti Internazionali (Bri) per racimolare un po’ di liquidità: non certo un sintomo di salute. Al 31 marzo, la Bri ha preso in carico 346 tonnellate d’oro in operazioni swap, un qualcosa che accade rarissimamemte, mai ad esempio nell’ultimo decennio: il gold swap è un’operazione in cui un soggetto, in questo caso le banche europee, vende il proprio oro a un altro, in questo caso la Bri, con l’accordo di ricomprarlo più avanti. 



La corsa alla vendita per fare cassa, stando al report annuale della Bri, è cominciata lo scorso dicembre ed è cresciuto a dismisura fino all’esplosione della crisi greca: a spaventare non è tanto il fatto in sé ma l’ammontare dell’operazione, 13 miliardi di euro in tutto entrati nella casse degli istituti. Disfarsi dell’oro, che all’epoca degli swap stava continuando a salire tornando a essere il bene rifugio per antonomasia, per una cifra simile parla la lingua della disperazione, altro che stress tests.

Basti guardare all’Euribor, il tasso a cui le banche si prestano denaro, cresciuto per ventisette giorni consecutivi e al valore stesso dell’oro, sceso sotto i 1.200 dollari l’oncia dopo che è stata resa nota la corsa alla vendita da parte delle banche Ue: gli analisti, però, avvertono che scenderà ancora, attorno ai 1.100 dollari per poi risalire, da settembre fino a toccare i 1.300 dollari l’oncia prima dell’inverno quando la crisi dell’euro sarà divampata.



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Qualcuno, invece, spiega la decisione delle banche in base alle prospettive di calo molto netto dell’oro nel medio termine: si comincia a scommettere con opzioni put con base 900-950 su ottobre e novembre. Vedremo. Ma se tutta l’Europa deve affrontare la crisi, ci sono modi e modi per farlo. In Gran Bretagna, dove il governo di coalizione giallo-blu ha dato vita a una manovra dalle cifre thatcheriane, la serietà ha pagato: nelle scorse settimane si è infatti registrata una corsa alla chiusura di posizioni short contro la sterlina, segnale che i mercati hanno apprezzato la durezza ma anche la serietà del Budget elaborato da George Osborne, questo nonostante al governo i Tories convivano con i LibDem, partito dalle forti connotazioni massimaliste di sinistra (sinistra britannica, però e la differenza con quella continentale non è di poco conto a livello di responsabilità verso il bene comune).

 

In Italia, invece, ci troviamo a fare i conti con una manovra iniqua nei numeri rispetto a quelle degli altri paesi, spalmata su un arco temporale minore e soprattutto incapace di tagliare gli sprechi poiché improntata al “one size fits all”, ovvero tutti sono uguali e tutti pagano lo stesso, quindi con regioni virtuose costrette a pagare i danni di quelle sprecone e disfunzionali. Il tutto con l’ennesimo ricorso alla fiducia e negando la possibilità di dialogo e mediazione: un vero capolavoro. Non è quindi un caso che l’Italia sia finita nel mirino molto speciale della speculazione internazionale, fatto testimoniato dal report al vetriolo elaborato da Roge Bootle di Capital Economics che definisce il Belpaese «una minaccia insita all’eurozona».

 

Per Bootle, «la perenne debole crescita e la montagna di debito governativo hanno trasformato le finanze pubbliche italiane in una bomba ad orologeria ticchettante che sta aspettando di esplodere». Nonostante il focus dei mercati sia stato indirizzato finora verso Grecia, Spagna e Portogallo, per Bootle «l’Italia potrebbe essere presto il fronte e il centro della vicenda riguardante il debito sovrano nell’Ue. Pensiamo infatti che il volume dei debiti governativi inciterà i mercati a volgere il proprio sguardo verso l’Italia e l’ipotesi di un default è possibile».

 

Evviva, ecco come ci vedono all’estero: e, attenzione, Capital Economics non è l’ultima arrivata, se lancia warning simili c’è un motivo. Per Bootle, «se un altro Stato dell’eurozona sarà obbligato a ristrutturare il proprio debito, l’Italia difficilmente potrebbe non seguirlo. Se la pressione sostenuta dei mercati e una prolungata prova di bassa crescita colpirà uno o più paesi periferici dell’eurozona obbligandoli al default e all’uscita dalla moneta unica, allora l’Italia sarà costretta a fare lo stesso.

 

Fin dagli anni Settanta, i governi italiani che si sono succeduti hanno vissuto ben oltre i propri mezzi e il debito pubblico è salito a circa il 115% del Pil, in linea con la ratio greca. E da quando è entrata nell’euro, l’Italia ha perso in competitività: pensiamo che per recuperare il gap creatosi negli anni servirà almeno un decennio di salari stagnanti o in calo. L’unica possibilità dell’Italia di riportare la ratio debito/Pil sotto il 100% sarebbe arrivare a surplus di budget del 5% in quindici anni.

 

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Se i mercati giungeranno alla certezza dell’incapacità da parte del governo di dar vita a una simile operazione, allora l’Italia potrebbe cadere nella cosiddetta “trappola del debito”. In uno scenario simile, i costi crescenti per ottenere credito porteranno a una crescita molto rapida della ratio debito/Pil, lasciando il paese e chi lo governo con l’unica opzione del default. Se accadrà tutto questo, ovvero il governo andrà in default sui suoi debiti e gli investitori saranno obbligati a una ampio haircut, all’incirca del 50%, questo porterà al collasso del capitale tier one dell’80% delle banche italiane, causando un tempesta nel mercato finanziario interno».

 

Stando ai calcoli di Bootle, il rischio di perdita per gli investitori esteri in Italia è di circa 400 miliardi di euro: «L’incertezza riguardo quali banche sarebbero maggiormente colpite da uno scenario simile porterà con sé una contrazione del mercato interbancario e potrebbe innescare una nuova, profonda recessione». Nero su bianco, il sottoscritto si è limitato a tradurre letteralmente il contenuto letterale del report: il quale, ovviamente, punta tutto – strumentalmente – su un “worst case scenario”, visto che l’Italia sta comunque strutturalmente meglio dei altri Piigs e gode, a differenza di altri paesi, di una forte e consolidata predisposizione al risparmio privato oltre che a una trentennale gestione del debito.

 

Il problema è che quando vengono pubblicati report simili, i mercati sono tentati e potrebbe partire la danza dei cds, i quali implicano poi prezzi più alti per finanziarsi e ripagare il debito. La speculazione, dopo Spagna e Grecia, potrebbe tentare un’altra sortita: e la litigiosità all’interno del governo parla la lingua dell’instabilità, una manna per chi vuole speculare. Esistesse un indice Vix per misurare la volatilità politica, l’Italia sarebbe a livelli dei giorni post-crollo di Lehman Brothers: l’atteggiamento di Giulio Tremonti certamente non aiuta ma pensare di poter non mediare ma almeno discutere con il super-ministro con ambizioni da filosofo, appare un miraggio.

 

Un po’ più di umiltà gioverebbe, al governo come al paese, ma le blindature continue e il ricorso alla fiducia come abitudine parlano la lingua della debolezza: la manovra, ripetiamo, oltre che ingiusta e iniqua rispetto a quelle messe in campo dagli altri partner europei, Germania in testa, è controproducente anche rispetto all’idea che i mercati potranno farsi dell’Italia nei mesi a venire, i più pericolosi. Speriamo in un ripensamento dell’ultim’ora, oppure prepariamoci a un autunno che sarà bollente.

 

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P.S. Per finire, una nota più leggera ma comunque esemplificativa dello stato di salute dell’Europa. Nel momento in cui spedisco questo articolo, ancora non si sa se saranno Spagna o Germania ad affrontare in finale l’Olanda ma, in caso si tratti della prima, preparatevi alla prospettiva di una nazionale potenzialmente campione del mondo composta in gran parte da giocatori di un club che per pagare gli stipendi di giocatori e staff è dovuto ricorrere in questi giorni a un prestito di 150 milioni di euro.

 

Già, il Barcellona che spende e spande è alle soglie del default. Anzi, della bancarotta, nonostante il presidente Sandro Rosell lo neghi al Financial Times. Anche per il calcio tossico dei debiti, sembra arrivata l’ora della verità. Saranno tanti i “too big too fail” a cadere, statene certi.