“Oggi tocca a noi, domani tocca a voi!”. Questo slogan è stato gridato all’inverosimile durante i mesi che hanno caratterizzato la protesta di quanti, tra i dipendenti Alitalia, non si volevano arrendere all’operazione di acquisto da parte di Cai. Adesso per la questione Fiat-Pomigliano d’Arco si parla insistentemente di una ripetizione della manovra messa in atto per la ex compagnia di bandiera.
Personalmente allargherei l’orizzonte a un fronte più ampio, visto che siamo alla mera attuazione del cosidetto “cambio epocale” che poi, in parole povere, significa arretrare l’orologio dei diritti del lavoro indietro di cinquant’anni (e forse più) per tappare le debolezze di un sistema che ormai, nella sua arretratezza, sta abbondantemente valicando i confini delle più elementari norme della convivenza civile.
Anzitutto giova premettere che mentre la ormai ex compagnia di bandiera navigava da anni in una tempesta ed era tecnicamente fallita, la Fiat ha saputo uscire brillantemente da una crisi che sembrava distruggerla per risorgere (senza alcun Piano Fenice) sotto la guida di un manager come Marchionne. Che addirittura non molto tempo fa ebbe a dichiarare come il costo del lavoro non fosse ulteriormente comprimibile, anche perchè considerava ogni lavoratore Fiat un suo potenziale cliente. Come non essere d’accordo?
Ma a quanto pare i tempi e sopratutto le idee sono cambiate e di parecchio, perchè quello che viene ora messo sul tavolo da Fiat alle maestranze di Pomigliano d’Arco è in pratica la stessissima cosa che due anni fa venne oferta ai sopravvissuti alla bufera Alitalia: lavoro si, ma a condizioni contrattualmente nulle e con il riconoscimento dei soli sindacati firmatari. Poi, in caso di rifiuto e di passaggio al piano B, si metteranno sul piatto della bilancia anche le assunzioni a dito, con maestranza “scelte” dall’azienda in base ai criteri che riterrà più opportuni .
In Cai tutto questo è già successo e le condizioni attuali delle maestranze sono state giustamente fotografate proprio su queste pagine, in un articolo scritto da un pilota attualmente in forza alla compagnia.
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Per raggiungere questo risultato, che riporta i diritti del lavoro in Italia indietro di una cinquantina d’anni, si è ricorsi anche a un abbondante lavoro ai fianchi perpetrato da una campagna stampa mirata, degna del peggior “bavaglio”, che ha fatto figurare gli ex dipendenti di Alitalia come i principali responsabili del disastro, con la “brillante” trovata dei privilegi, cosa che ha martellato l’opinione pubblica Italiana per mesi.
Alla fine le 10.000 lettere di Cigs e i 3.000 licenziamenti di lavoratori a contratto a tempo determinato sono apparsi come la mannaia che felicemente si è abbattuta per far trionfare la giustizia.
Ma nessuno ha mai scritto, ad esempio, che i biglietti che permettevano di far viaggiare “gratis” i dipendenti (falso in quanto sono al 90% e 50% e non danno diritto al posto) sono prerogativa di tutti i lavoratori delle compagnie aeree che appartengono alla Iata (l’associazione che le riunisce); che i 40 giorni di ferie di cui godeva un navigante aereo sono sì tali, ma presuppongono che 3 giornate di ferie si mangino un giorno di riposo: è come se dopo le 30 giornate passate in vacanza un lavoratore venisse invitato a lavorare 5 week-end per recuperare i 10 giorni di questo calcolo, che in pratica riduceva le ferie reali a 27 giorni all’anno: bel “privilegio” no? Tanto che adesso i giorni sono diventati 30, ma la regola del 3 vale lo stesso… quindi 20 giorni di ferie .
E poi che dire della megapanzana che un giornalista ha pubblicato su di un libro dedicato alla “casta” sindacale , in cui viene scritto che “per i naviganti Alitalia il giorno di riposo dura 36 ore”? Da me contattato lo “scrivente” mi rivelò a suo tempo che la cosa gli venne detta da una “gola profonda”, impiegata alla Magliana , dove i “sentito dire” vengono presi per oro colato.
Peccato che le regole dell’Enac, che si rifanno a quelle europee JAR-OPS, dicano che “l’operatore deve assicurare che il riposo minimo previsto sia periodicamente incrementato,prevalentemente presso la base di servizio, a un periodo di riposo non inferiore a 36 ore comprendente almeno una notte locale in maniera da costituire un periodo di riposo settimanale;l’intervallo massimo fra la fine di un periodo di riposo e l’inizio del successivo non può superare 168 ore”. Insomma le regole prevedono 36 ore di riposo alla settimana. In Alitalia si erano raggiunti gli 8 giorni di riposo mensili, senza contare le festività che ovviamente non venivano mai godute. Altro “privilegio”?
Quanto poi al servizio di prelievo e di accompagno al domicilio, non si è mai detto che lo stesso era pagato in parte dal personale e che è comune a molte aerolinee per le quali risulta essere un fattore legato al servizio a causa delle condizioni fisiche critiche dei naviganti e anche per poter garantire la puntualità dei voli.
Insomma il bersaglio è stato creato ad arte per nascondere le vere ragioni del fallimento di Alitalia, così abbondantemente descritte in vari articoli su questo e (pochissimi) altri organi di informazione: la compagnia è fallita perché i numeri dicono che spendeva per la sua organizzazione mediamente il 25% in più degli altri vettori, pur avendo raggiunto un costo del lavoro mediamente del 40% inferiore. Dato che faceva sì che un volo registrasse una perdita notevole pure se pieno.
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Ancora oggi, a quasi due anni di distanza dall’operazione Cai, questo dato, pur se confermato anche dalla relazione sulle cause dell’insolvenza di Alitalia elaborata dallo stesso commissario straordinario Dott.Fantozzi (pagina 34 e seg.), deve rimanere un qualcosa di segreto o quasi atto a mascherare le vere responsabilità politico-manageriali su di una gestione davvero singolare che ha portato a una operazione che solleva ogni giorno che passa dei dubbi profondi, anche da parte di chi all’inizio ne era strenuo fautore.
Quello che viene da chiedersi è come mai sia Air France che l’Israeliana El Al, in situazioni praticamente uguali, abbiano visto i governi puntare il dito sugli sprechi e abbatterli sostituendo intergralmente il management e, nel caso di El Al, nominando un amministratore delegato italiano, già ex Console onorario a Tel Aviv, Michele Levi, che facendo leva sulla collaborazione delle maestranze e responsabilizzandole anche per capire un universo come quello del trasporto aereo già complicato di suo, in soli due anni , senza tagliare né un posto di lavoro né gli stipendi, riportò la compagnia al pareggio e addirittura nel giugno 2006 al primato assoluto in ricavi. Cosa che in Alitalia pareva e pare essere missione impossibile.
Però lo stesso Colaninno, durante lo svolgimento della giornata dedicata ad Alitalia al festival dell’economia di Trento, magnificava di aver raggiunto un costo del lavoro abbondantemente concorrenziale addirittura con il settore dei voli low cost . E qui sorge una domanda che coinvolge non solo il caso Fiat, ma più in generale tutta l’attuale situazione italiana. È mai possibile che un Paese nel quale gli stipendi sono già al livello più basso dell’area euro, il costo del lavoro sia “l’ossessione” che ancora non fa dormire l’imprenditoria medio-grande? Non sarebbe ora di ribaltare questo vecchio lait-motiv e puntare su di un rapporto più maturo che, vedi i casi sopra citati, possa permettere alle aziende di avere successo, fare profitti ugualmente e creare condizioni di ripresa dovute anche ai maggiori salari?
È chiaro che finché lo Stato si astiene dall’essere l’arbitro dell’economia per diventare complice delle aziende attraverso leggi o tasse varate ad hoc, che spesso distruggono la sana concorrenza, l’imprenditore limiterà i suoi rischi e i suoi investimenti: tanto c’è sempre uno Stato che opera un socialismo generoso e si accolla le perdite. La cosa importante diventa quindi abbassare il costo del lavoro per aumentare i profitti.
E il sindacato, da “labor defensor” si trasforma in garante della flessibilizzazione contrattuale in cambio di favori vari, non ultimi i incarichi politici sostanziosi…tanto se si difendono i diritti del lavoratore si rischia (in questo nostro strano Paese ) di non venir nemmeno riconosciuti, anche se si è maggioranza, e allora il fallimento del Paese diventa l’ipotesi più fattibile. Peccato che sotto questa “cupola” di interessi “comuni” gli unici a perdere sono i lavoratori e anche i clienti dato che si trovano davanti dei prodotti non competitivi a livello qualitativo.
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Forse un po’ di sano e vero capitalismo non farebbe male in questo sistema Paese culturalmente arretrato dove chi lavora , invece che essere considerato una risorsa e quindi utile agli interessi di un’azienda , viene trattato ormai alla stregua di “materiale umano”.
Un Paese a cui l’illuminismo di Adriano Olivetti dimostrò nel dopoguerra che politiche aziendali e sociali possono tranquillamente coesistere e generare un comune benessere consono a un reale progresso: consiglio veramente a tutti di vedere la bellissima puntata a lui dedicata nella trasmissione “La storia siamo noi”.
Sicuramente seguendo questo esempio (simile ad altri ma purtroppo imitato solo al di fuori dei nostri confini ) si riuscirà a rendere felice il futuro del bambino che il padre tiene amorevolmente tra le sue braccia nel bellissimo spot targato Fiat e intitolato “Fabbrica Italia”. Che si crei un vero “Patto sociale” , una vera rivoluzione che contribuisca a non lasciare solo il pargolo e a rendergli un futuro degno: a cominciare dal presente del padre.