“La crescita demografica non fa bene all’economia”, questo il titolo di un articolo di Giovanni Sartori pubblicato ieri su Il Corriere della Sera in risposta a un testo di Ettore Gotti Tedeschi pubblicato sull’ultimo numero di Atlantide e anticipato dallo stesso quotidiano di via Solferino. Il Presidente dello Ior sostiene infatti che il fattore demografico sia indispensabile alla crescita economica, ma il Professore emerito dell’Università di Firenze la pensa esattamente al contrario. La tesi di Gotti Tedeschi è fondata? Lo abbiamo chiesto a Luigi Campiglio, docente di Economia Politica.
Professore, come commenta l’articolo di Giovanni Sartori?
In generale mi sembra poco condito di argomenti. Le tesi di Sartori sono note da tempo, ma il tema è comunque interessante. Partirei da una considerazione su Malthus: la sua teoria non prevedeva il progresso tecnico, ma uno stato stazionario delle cose, in un momento storico in cui la popolazione cresceva o diminuiva a seconda delle disponibilità alimentari. Oggi l’interpretazione neo-malthusiana è quella che vede una minaccia nella cosiddetta “bomba demografica”, che sarebbe destinata a far esplodere la Terra, dato il limite delle risorse disponibili del Pianeta. In questo c’è una mezza verità.
Quale?
Dato che il mondo è finito, è chiaro che la popolazione non può crescere all’infinito. Ma occorre cambiare in modo radicale la prospettiva rispetto ai tempi di Malthus: allora la finitezza del mondo riguardava la capacità del Pianeta di produrre alimenti. Oggi gli studiosi ritengono che la Terra potrà sostenere i 9 miliardi di abitanti che sono attesi nella seconda metà di questo secolo. Sempre che si riescano a bilanciare le disuguaglianze nella distribuzione dei beni alimentari. La sfida principale è perciò un’altra.
Di che cosa si tratta?
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La sfida della sostenibilità, o meglio della capacità di carico del Pianeta, oggi riguarda i modelli di consumo. Vi sono infatti risorse, come il petrolio, destinate a diminuire ed esaurirsi, specie di fronte all’aumento della domanda di grandi economie emergenti come Brasile, Cina e India. L’analisi neo-malthusiana sembra però sottovalutare la capacità dell’umanità, attraverso la scienza, gli accordi internazionali, ecc. di governare questi beni comuni, una categoria di cui si parla sempre di più. Non è un caso che l’ultimo Nobel per l’economia sia stato dato a studiosi che si sono occupati di questo tema, in particolare Elinor Ostrom. Il discorso neo-malthusiano della serie “se siamo di meno, stiamo più larghi” sembra trascurare tutto questo quadro.
Ma la crescita della popolazione aiuta o no lo sviluppo dell’economia?
Certamente non è l’unico fattore capace di determinarla, ma secondo me la aiuta almeno da tre diversi punti di vista. Per esempio, un’impresa che opera in un mercato in cui c’è una crescita, seppur minima, della domanda farà più facilmente investimenti. Il rischio di un errore di un investimento diventa infatti minore se la domanda sta crescendo (ed è evidente che questo avviene quando aumenta la popolazione). Non si tratta di una novità: questo è quello che affermava John Maynard Keynes negli anni Trenta per spiegare come una maggiore fertilità possa influenzare la crescita dell’economia. Non bisogna poi trascurare la dinamica dei comportamenti.
In che senso?
Il comportamento di un genitore con figli è diverso da quello di un single. Una coppia sente maggior responsabilità, maggiori motivazioni (un economista potrebbe parlare di animal spirits) nel raggiungere un tenore di vita adeguato per sé e per i propri figli. Più se ne hanno, maggiore sarà lo sforzo e l’impegno profuso dai genitori. Tutto questo, tradotto in termini economici, significa maggiore intensità e produttività del lavoro. Questo del resto è il modello su cui si è basato il boom economico italiano degli anni Cinquanta.
Qual è l’ultimo punto di vista utile a capire l’importanza dell’aumento della popolazione?
Il fatto che oggi nel 2010 si costruiscono i curriculum che serviranno dal 2050 in poi. Il dibattito recente sullo sviluppo economico del futuro sta facendo emergere l’importanza che avrà la qualità del capitale umano, mentre finora sembrava essere importante solo la quantità (ad esempio il numero di anni di scuola frequentati). La qualità sembra dipendere da due caratteristiche: la tenacia e la sicurezza di sé. E il ruolo dei bambini nella qualità è centrale: se vogliamo costruire un futuro migliore dobbiamo impegnare e investire le risorse adesso sui molto giovani. E più ce ne sono, più capitale umano di qualità sarà disponibile in futuro. Per questo sarà sempre più importante e decisivo il ruolo delle famiglie.
Perché?
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Perché questo “investimento” di cui ho appena parlato lo fa la famiglia. Occorre quindi darle mezzi e risorse (non solo monetarie) perché possa trasformarle in qualità cognitive per i bambini. Del resto già si può vedere che i paesi che lo fanno (in Europa Francia e Svezia) sono quelli che poi riescono a crescere di più. Se mettessimo le famiglie nelle condizioni di poter scegliere liberamente quanti figli avere faremmo una cosa estremamente positiva.
Prima diceva che la crescita della popolazione non è l’unico fattore che può portare alla crescita economica. Cosa serve d’altro?
Certamente è un dato di fatto che i paesi più vecchi sono quelli che arrancano, mentre quelli più giovani stanno rimbalzando più velocemente dalla crisi. La Svezia (uno dei pochi paesi che non ha registrato una forte diminuzione della natalità), per esempio, ha un tasso di fertilità di 1,9 figli per donna e al contempo è il paese con la più elevata crescita di produttività al mondo nel settore manifatturiero. Tuttavia l’aspetto demografico non basta: quello che si nota è che risulta vincente la combinazione tra forza lavoro giovane e capitale (capitale in senso stretto, educazione e motivazione, che come detto viene dalla famiglia).
Sartori sembra anche prendersela con la Chiesa, colpevole di alimentare quella che lei all’inizio ha definito “bomba demografica”. Cosa ne pensa?
Questo mi colpisce molto. Sartori dovrebbe spiegare che correlazione esiste tra la difesa della vita e quella che lui definisce “crescita demografica dissennata”. Anche perché i dati sembrano descrivere un fenomeno di tutt’altro segno: il tasso di fertilità mondiale è sceso da 4,7 nati per donna del periodo 1970-75 a 2,6 del 2005-2010. Un calo che ha riguardato i paesi più sviluppati (da 2,3 a 1,6), quelli emergenti (da 5,6 a 2,5), come pure quelli sottosviluppati (da 6,3 a 4,4). Sartori sembra poi dimenticare una cosa riguardo la Cina.
Che cosa?
Sartori sembra elogiare la “drastica riduzione delle nascite” in cui la Cina si è “impegnata”. Tuttavia quel paese ha un tasso di fertilità pari a 1,4 (un dato non molto differente da quello dell’Italia), nonostante la politica del figlio unico, che oltretutto sembra destinata a essere allentata. Se le autorità cinesi stanno pensando di fare retromarcia su questo “impegno” evidentemente significa che non ha effetti benefici.
(Lorenzo Torrisi)