La grande crisi finanziaria ed economica è cominciata nell’estate del 2007. Su questo punto c’è ormai accordo quasi generale tra gli analisti. Quindi, a tre anni dall’esplosione, dopo una lunga “istruttoria” e alla vigilia del Ferragosto 2010, abbiamo ora anche il colpevole: la politica.
A scoprirlo e a spiegarcelo, con la consueta eleganza e non-chalance, è Il Corriere della Sera di ieri, attraverso la penna del professor Francesco Giavazzi, economista ed esperto di banche e finanza che “parla soprattutto inglese”.
Non sempre Giavazzi è stato buon profeta. Il 4 agosto del 2007, il professore scriveva, sempre sul Corriere: “La crisi del mercato ipotecario americano è seria, da qualche settimana ha colpito anche le Borse, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata”. Insomma, per Giavazzi la crisi era una turbolenza limitata e passeggera. Ma è umano sbagliare, anche per i grandi economisti.
Oggi, in fondo, è già un “passo avanti” che Francesco Giavazzi si renda conto che siamo al terzo anno di crisi e che la situazione non riguarda solo il mercato ipotecario americano, non solo la finanza, ma anche l’economia mondiale.
Tuttavia Giavazzi è perentorio nella nuova accusa che lancia: “La crisi finanziaria… ha avuto una radice comune sia negli Stati Uniti che in Europa: la corruzione politica”. E il professore scrive ancora con piglio perentorio: “Sostenere che la crisi sia stata prodotta da un eccesso di mercato, dalla finanza o dalla globalizzazione, è una sciocchezza, sostenuta da chi ha interesse a evitare che si sottolineino le responsabilità della politica”.
Questa volta il professore, oltre a essere influenzato dal suo inossidabile liberismo (che secondo lui e Alberto Alesina è “di sinistra”), oltre a essere deferente soprattutto ad alcune grandi università americane come quella di Blackburg in Virginia, rende omaggio anche a Hollywood, con una sceneggiatura che ricorda “Il padrino” (parte terza) con la nota battuta: “La finanza è un’arma , ma è la politica che preme il grilletto”. Battuta degna di un avanspettacolo di lusso, ormai superato.
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In effetti, è dall’inizio degli anni Novanta che si è pensato (in molti) che la politica fosse andata “in pensione” e il mondo degli affari, soprattutto finanziari, dilagasse, regolando quasi direttamente le società. Anche il professor Giavazzi applaudiva all’affermarsi della deregolamentazione e della nuova finanza anglosassone che si consolidava con il “Gramm Leach-Biley” del 1999, che promuoveva la creazione di Banking Holding Companies, cioè di conglomerate “tutto fare”.
Avevamo periodicamente delle “prediche giavazziane” sulla funzionalità e la vitalità di Wall Street e della finanza anglosassone. Abbiamo avuto in questi anni delle autentiche “orazioni” in difesa dei
“derivati” e di tutte le nuove tecniche finanziarie. E anche dell’utilità delle stock-option. Tutta colpa dei politici? Sono loro che hanno ispirato questa nuova architettura finanziaria?
A rigor di logica, è difficile accusare lo Stato e la politica prima di invasione e, poi, quando si ritira (e magari le cose vanno male), accusarlo di aver lusingato banchieri e finanzieri disinteressandosi delle regole del mercato, lasciando fare tutto quello che si voleva. Come devono comportarsi in fin dei conti politica e Stato? Interessarsi o non interessarsi all’economia e alla finanza?
Sarebbe il caso che il liberista Giavazzi lo spiegasse più dettagliatamente e anche nei tempi dovuti. Altri lo hanno fatto e hanno anche criticato “l’andazzo” che avevano preso gli intermediari finanziari a cavallo degli anni Duemila. Inutile citare il solito Nouriel Roubini o il solito Paul Krugman. Anche Joseph Eugene Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, ha detto che il modo e l’entità della cartolarizzazione usata in questi anni prevedeva “la nascita al mondo di un cretino ogni minuto”. Difficile immaginare che una tecnica bancaria come la cartolarizzazione sia stata pensata nei palazzi del “potere politico” e non elaborata nei grandi santuari del “potere finanziario”.
E questa cartolarizzazione deve piacere moltissimo al professor Francesco Giavazzi, difensore d’ufficio per anni dei prodotti finanziari derivati. Non c’ è dubbio che vi siano stati lobbies politiche che andavano a braccetto delle banche, ma sarebbe interessante spiegare chi guidava il cammino in questo periodo storico. Certo, nella responsabilità della crisi ci sono anche i poteri regionali, come quelli dietro alle casse di risparmio tedesche. Ma chissà chi c’era in compagnia della “cassa di risparmio” Bearn Stearns, oppure della “cassa rurale” Lehman Brothers o delle otto “banchette” inglesi nazionalizzate, per disperazione in una notte, dal premier Gordon Brown? E chi era Sidney Homer, specialista in obbligazioni della “Salomon Brothers”, che separava le obbligazioni dalle loro cedole vendendole separatamente? Una spia della Cia o un comune grande banchiere americano?
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Ma forse il professor Giavazzi rimpiange i tempi di Raffaele Mattioli, Giordano Dell’Amore e Enrico Cuccia, banchieri italiani inafferrabili per il controllo politico, discreti sino all’ossessione e refrattari alle innovazioni brillanti? Non si può pensare che Giavazzi li rimpianga, perché sono il “passato” dove c’era il controllo dello Stato e nel caso di Mediobanca, il doppio controllo dell’Iri e del Tesoro.
Ora non c’è dubbio che, con la persistenza della crisi e le difficoltà a uscirne, ci sia a volte una “strana voglia” a trovare “capri espiatori” evitando una impopolarità dilagante. Presto arriveranno i bilanci delle banche e non sarà semplice aggiustarli, malgrado le “amiche” Agenzie di rating riescano a far brillare tutto, quando vogliono.
Ma più che accuse lanciate con poco senso, sarebbe meglio studiare e apprendere la realtà di questi anni. Le sintesi schematiche e brutali potrebbero essere controproducenti. Non vorremmo che dopo il vecchio adagio “piove, governo ladro”, il professor Giavazzi arrivasse a ipotizzare che Bernie
Maddoff è una vittima di Bush junior.