Francesco Giavazzi insiste. L’attacco del suo articolo di fondo su Il Corriere della Sera di mercoledì 11 agosto è: “La crisi finanziaria […] ha avuto una radice comune sia negli Stati Uniti che in Europa: la corruzione della politica”.
Una frase apocalittica come quelle alle quali Giavazzi ci ha abituato. Apocalittica e sbagliata. Ormai nessun economista serio è disposto a sostenere una tesi di questo tipo perché l’osservazione empirica dei motivi che hanno portato al crollo dei mercati nel 2007, lo studio dello sviluppo della crisi e del suo deflagrare in tutto il mondo hanno dimostrato che, per lo meno, se si vuole essere generosi, c’è stata una concausa di fattori. Tra questi fattori c’è anche la finanza. Anzi, la “troppa” finanza. La “troppa” e “cattiva” finanza”. La “troppa”, “cattiva” e “poco regolamentata” finanza.
Ormai è noto che l’errore culturale alla base della crisi sia quello di aver avere indotto la crescita economica attraverso il debito: delle famiglie, delle imprese, degli Stati. Scopo del debito è stato quello di aumentare i consumi e, in particolare in Usa, un consumo: quello immobiliare. L’interesse della politica a soddisfare i bisogni delle persone inducendole a indebitarsi e l’interesse della finanza a soddisfare i loro bisogni con prestiti garantiti dallo Stato si sono fusi in un unicum nel quale è ben difficile stabilire “chi ha iniziato prima”. Giavazzi sostiene sia stata la politica che accusa di “dannose invasioni di campo”. Amen.
Altri la pensano diversamente. Se Paul Krugman è troppo keynesiano per il palato fine del docente bocconiano (“Credo che gli unici veri ostacoli strutturali al benessere del mondo siano le dottrine obsolete che annebbiano la mente degli uomini” in “Il ritorno dell’economia della depressione”, Garzanti 2009), può servire Luigi Spaventa: “Una fiducia cieca nell’efficienza dei mercati e nella loro capacità di autoregolamentarsi ispirò sia la politica monetaria dell’era Greenspan (ex governatore della Fed, ndr) sia gli episodi di deregolamentazione” (introduzione a “Crack” di Charles Morris, Elliot 2008).
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Mi si passi invece l’amato Amartya Sen: “Benessere e regolamentazione sono questioni collegate. Se si crede che il mercato non abbia bisogno di controllo, perché la gente farà automaticamente le scelte giuste, non ci si pone nemmeno il problema” (La Stampa, 10 giugno 2009). E che ne dice Giavazzi del mea culpa dello stesso Greenspan? “Tutta quella sofisticata scienza matematica e informatica sostanzialmente poggiava su una premessa e cioè che l’interesse egoistico e illuminato dei proprietari e dei direttori degli istituti di credito li avrebbe indotti a mantenere scorte-cuscinetto (di danaro, ndr) sufficienti a cautelarsi dal rischio d’insolvenza. Questa premessa, nell’estate del 2007, è venuta meno” (Il Sole 24Ore, 14 maggio 2009).
E Akelorf e Shiller? Il monetarismo che piace tanto a Giavazzi e alla scuola di Chicago “va nella direzione sbagliata”, perché “ci si è focalizzati su come si comporterebbe l’economia se le persone avessero soltanto motivazioni economiche e fossero pienamente razionali” (Il Corriere della Sera, 27 maggio 2009). Cosa che, con sommo disappunto di Giavazzi, non è. E, infine, Stiglitz, secondo il quale per evitare altre crisi “è importante insegnare ai giovani professionisti l’importanza di tenere comportamenti etici”, perché quella della perfezione dei mercati “è un illusione” (Il Corriere della Sera, 5 febbraio 2010). (Noto, per inciso, che Giavazzi ebbe a paragonare l’“etica” alla “sharia”, la legge islamica).
Una incompleta carrellata di citazioni solo per dire che non proprio tutti, compresi una manciata di premi Nobel per l’economia, la pensano come Giavazzi. Io credo che quando un economista si mette a scrivere, dovrebbe sempre premettere due paroline ai suoi lavori: “Secondo me” in modo che tutto quello che scrive dopo possa essere preso per quello che è e non per una sentenza.
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