Dunque la Cina ha superato il Giappone, per dimensione del suo prodotto interno lordo (Pil). E che notizia è? Era tutto previsto, atteso, ovvio. È accaduto nel secondo trimestre di quest’anno, ma poteva accadere anche prima o anche tre mesi dopo: era semplicemente ovvio. Peraltro, con 1,3 miliardi di cittadini censiti contro 100 milioni, la gara Pechino-Tokio era comunque già risolta in partenza, anche al netto della spaventosa produttività che la Cina ha conquistato negli ultimi anni, mentre il Giappone restava fermo sui colpi della sua deflazione.



Ma come cambia, questa notizia, il quadro complessivo dell’economia mondiale e le sue possibilità di riprendere la via di uno sviluppo corale e diffuso? Semplicemente, non lo cambia.

I termini essenziali del momento economico mondiale sono sempre gli stessi. La Cina è l’unica economia davvero trainante, galoppa sempre al ritmo di una crescita del 10%, imitata – ma a prudente distanza – dall’India, dal Brasile e dalla Russia, forte quest’ultima più delle sue risorse minerarie (gas e petrolio) che non manifatturiere, oltre che della sua domanda interna, alimentata appunto dalla “rendita fossile”.



Gli Stati Uniti restano l’economia “numero uno”, ma anche su di essi è facile pronosticare il sorpasso cinese (e ci sono già ovviamente fior di stime, tutte rigorosamente strampalate perché comunque postulano dati del prossimo quinquennio su cui nessuno dei previsori scommetterebbe in realtà un dollaro del suo stipendio). Ma cosa vuol dire per gli Usa essere superati dalla Cina, e cosa comporta per l’Europa e, in Europa, per l’Italia?

Il tema di fondo è che l’analisi dei fenomeni macroeconomici non serve a nulla se si tenta impropriamente di desumerne conseguenze microeconomiche. Dire che l’economia mondiale sta crescendo in media del 4,5% non significa assolutamente nulla per le economie che non crescono o addirittura retrocedono, pur contribuendo a “fare media” con quelle che galoppano, né più né meno che nella vecchia storia sulla “media del pollo” di Trilussa.



Nessuno sa fino a che punto la Cina sarà disposta a “condividere” col resto del mondo i vantaggi della sua crescita, per esempio continuando a importare grandissime quantità di beni e servizi, come fa oggi, o in che momento potrebbe invece decidere di accentuare il carattere autarchico della sua attività economica.

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Ad esempio, quando Pechino ha deciso di costruire la Diga delle tre gole, per una serie di evidenti ragioni ambientaliste i principali colossi edilizi occidentali hanno eccepito molte questioni di metodo, prima di concorrere per la colossale opera. E Pechino non se n’è data minimamente cura: ha realizzato l’enorme impianto utilizzando esclusivamente imprese edili cinesi.

 

Quindi la “locomotiva cinese” potrebbe anche, un brutto giorno, decidere di non tirare più il convoglio mondiale. E la “locomotiva americana”? La si direbbe in affanno. Il presidente della Federal Reserve Bernanke è stato molto severo nei suoi periodici discorsi prospettivi, e anche per Obama la doccia fredda arrivata dalla sua banca centrale è stata di quelle traumatiche: “La ripresa si sta affievolendo” ha sentenziato Bernanke, e ha dato ordine di riprendere a comprare titoli di Stato Usa, per evitare che le aste vadano male.

 

Marcia invece a pieno regime la “locomotiva tedesca”, che con quel suo +4,4% di Pil nel secondo trimestre ha fatto scalpore. Un bene per l’Italia, che è incredibilmente riuscita – grazie anche alla cura Tremonti, bisogna dargliene atto – a diventare la seconda economia europea per dinamismo e affidabilità, come anche l’ottimo andamento delle aste dei Bot annuali qualche giorno fa ha dimostrato.

 

Ma, ecco: in un mondo dove va fortissima solo la Cina, dove Brasile, Russia e India crescono ma senza ancora poter (né voler) ambire a un ruolo di traino, dove gli Stati Uniti zoppicano e solo la Germania, in Europa, accelera, l’Italia non è affatto messa male, eppure non ha elementi per dormire sugli allori.

 

Anche perché le incertezze sistemiche – legate alle politiche cinesi, ai “mali oscuri” mai guariti della finanza americana (dove si risente sinistramente parlare di crisi immobiliare) e alla montagna del debito pubblico europeo – sono ancora molto temibili.

 

Quindi, mentre i macroeconomisti scrutano i vari quadranti della ricchezza (e della povertà) globale, con lo stesso smarrimento con cui Galileo scrutava il firmamento col suo ne-brevettato cannocchiale, i microeconomisti non possono che dedicarsi alla cura delle piccole variabili locali: la lotta all’evasione fiscale, la riduzione del debito, l’ottimizzazione del welfare, i palliativi contro la disoccupazione da “social dumping”.

 

Meglio che niente, ma, come dire: piccolo cabotaggio. Nell’era della globalizzazione, la scienza economica è diventata un leviatano troppo grande e autoreferenziale per risultare gestibile da chicchessia.