Etimologicamente parlando, il verbo “speculare” deriva da “specula”, ovvero un luogo dal quale si osserva. Meglio ancora, si specula nel senso che si medita attentamente, si fanno progetti, calcoli. Insomma, la speculazione sembrerebbe un’attività di tutto rispetto, visto che ha impegnato (e continua a impegnare) il tempo di tante persone apparentemente sagge e illustri.



Tuttavia, pare che i termini “speculatore” e “speculativo” abbiano assunto di recente dei connotati decisamente negativi, soprattutto per via di una certa acrimonia da parte di alcuni. E tutto ciò è avvenuto in particolare in Europa, dove la classe dirigente si sta distinguendo ancora una volta per lungimiranza e perspicacia. Ma soprattutto, per quella pratica nobile e politicamente ineccepibile che gli inglesi hanno efficacemente descritto come scapegoating. Lo scarica-barile, la ricerca dello spauracchio per le masse incolte e illetterate.



I problemi dello stock di debito pubblico in crescita esponenziale – tema questo che differenzia incredibilmente i Paesi indisciplinati (quelli sviluppati) dai Paesi virtuosi (quelli emergenti) – ha portato alla cosiddetta “crisi del debito sovrano”: i Titoli di Stato di alcuni Paesi dell’area euro – in particolare, quelli di Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo – sono stati messi apparentemente sotto scacco da un manipolo di avventurieri del mondo della finanza.

Tralasciando per ora i tecnicismi finanziari, il risultato di questa crisi è che oggi, quando deve chiedere soldi in prestito al mercato, Atene è costretta a pagare tassi d’interesse che mai si erano visti dalla nascita dell’Unione Europea. Il costo di tale debito è tanto pesante che alcuni organismi internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale, sono dovuti intervenire insieme alle autorità comunitarie per arginare il problema ed evitare così che la Grecia perisse soffocata da questa crisi.



I colpevoli di questa incresciosa situazione? Secondo la Merkel e Sarkozy, la colpa è tutta dei cosiddetti speculatori, ovvero coloro – come si era visto all’inizio – che meditano attentamente, che fanno progetti e calcoli, che osservano il mondo dall’alto, forti di un punto di vista difficile da eguagliare: quello della “conoscenza”. Ma prima di scoprire chi sono (e se esistono) tali spregiudicati nemici della “cosa pubblica”, è utile comprendere quali sono i torti che gli si attribuiscono, ripercorrendo la genesi di questo cambio semantico nell’interpretazione della parola stessa che li definisce.

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L’antefatto è ormai noto: dopo la crisi mondiale del 2007-2008, anche i governi europei hanno seguito l’esempio degli Stati Uniti e sono intervenuti – chi più, chi meno – nel sostenere le proprie economie nazionali con iniezioni di spesa pubblica, così da fermare quella che molti hanno chiamato Grande Recessione. Queste espansioni fiscali sono state finanziate naturalmente con emissione di nuovo debito, ovvero con la vendita di altri Titoli di Stato, e ciò ha portato inevitabilmente a un incremento del deficit pubblico e dello stock di debito complessivo ben oltre i parametri di Maastricht.

 

A peggiorare la situazione, nel corso dei primi mesi dell’anno si è scoperto che alcuni Paesi dell’area euro sono stati poco disciplinati nella stesura dei conti da presentare periodicamente alla Commissione Europea: la Grecia, infatti, con il nuovo governo, si è vista “costretta” a svelare numeri ben diversi da quelli precedentemente comunicati al mercato. Numeri fra l’altro molto al di fuori dai limiti imposti dal Patto di Crescita e Stabilità. E da lì è iniziata la crisi che ha coinvolto in maniera inizialmente generalizzata i Titoli di Stato dei Paesi periferici dell’area euro, inclusi quelli emessi dal nostro Paese.

 

Tecnicamente, la crisi si è manifestata come una serie di veloci vendite da parte degli investitori proprio di quei Titoli di Stato non ritenuti più affidabili, a causa di quel “deficit informativo” scoperto nel primo trimestre dell’anno. Se prima, infatti, il rischio percepito dagli investitori era piuttosto basso – il presupposto per questo giudizio era infatti la convinzione che i conti fossero in ordine e comunque sotto controllo – ora, per compensarli e attirare quindi nuovi fondi a sostegno delle finanze pubbliche, sono necessari tassi d’interesse ben più elevati.

 

E da qui ne consegue il cosiddetto differenziale d’interesse che discrimina il rischio (e quindi il rendimento che è possibile ottenere) tra Titoli di Stato: quelli più sicuri avranno ovviamente un rendimento più basso rispetto a quelli meno sicuri. Concretamente, il peso sul bilancio annuale degli interessi sarà più basso per la Germania rispetto alla Grecia.

 

La crisi del debito sovrano ha avuto un impatto immediato sugli investimenti di moltissimi risparmiatori: infatti, la maggior parte dei fondi pensione europei sono strutturati in modo tale da mantenere cospicui investimenti in Titoli di Stato dell’area euro, secondo un’ottica di diversificazione che tende a spalmare l’investimento su più emittenti (un po’ di Titoli di Stato tedeschi, un altro po’ d’italiani, e così via), prediligendo comunque quelli che pagano cedole più ricche. E che inevitabilmente, come nel caso della Grecia, sono quelli più rischiosi.

 

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Queste obbligazioni hanno perso moltissimo negli ultimi mesi, andando a impattare anche i bilanci di moltissime banche, le quali, da quando il costo del denaro è stato abbassato ai minimi storici, erano incentivate a prendere a prestito dalla Banca Centrale Europea per poi investire in obbligazioni governative dei Paesi periferici (nel tentativo di generare internamente dei nuovi buffer di capitale. Ma questa è un’altra interessantissima storia).

 

Come si desume da quanto sinora descritto, ci sono molte parti che hanno un interesse in gioco nella vicenda. E tutti chiedono una risposta ai politici, i quali non hanno aspettato un solo istante nel puntare il dito sui già citati speculatori finanziari, ovvero coloro che secondo loro hanno scommesso sul fallimento di alcuni dei Paesi dell’area euro portando alla crisi – ancora irrisolta – del debito sovrano.

 

Ma questi “speculatori” sono subito apparsi come un’entità astratta o altrimenti definita come un gruppo di pirati della finanza, in grado di muovere miliardi di dollari da ogni parte del mondo e influenzare quindi il prezzo di attività finanziarie anche in area euro. C’era chi ha citato come colpevoli i soliti noti, come il celeberrimo George Soros (che in passato ha accumulato miliardi con le sue scommesse sulla sterlina e la lira), chi invece ha gridato alla congiura di poteri occulti della finanza globale.

 

Molto più semplicemente, gli “speculatori” erano e rimangono operatori normali di mercato che con le loro attività di analisi e di studio (eccola, la “speculazione”), con l’intento di ottenere un risultato per i propri clienti, cercano di trovare situazioni di disequilibrio sui mercati così da poterne trarre vantaggio. Ovvero – per esemplificare l’attività dei speculatori – chi non venderebbe qualcosa, che si è scoperto essere molto più caro del giusto, per comprare qualcosa di valore che è invece a sconto e sottovalutato dal mercato?

 

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I clienti di questi operatori non sono altro che i fondi pensione, le assicurazioni e le banche che detengono i nostri risparmi. E l’attività che svolgono è semplicemente concentrata sull’individuazione di cosiddetti mispricing, come quello colossale che aveva portato negli ultimi anni a valutare il rischio delle obbligazioni greche come molto simile a quello dei Bund tedeschi – senza nulla togliere ai miei amici greci, la capacità di gestire la cosa pubblica nel Nord Europa è molto differente da quanto siamo abituati noi popoli del Mediterraneo. E questo dovrebbe riflettersi nella relativa rischiosità e nei rispettivi rendimenti attesi.

 

La speculazione, quindi, non è stata altro che un’attività di “scoperta” della realtà dei fatti, una sorta di apertura del vaso di Pandora: i politici sono infatti stati costretti dal mercato ad affrontare una situazione che loro stessi avevano generato senza alcuna pianificazione e disciplina: è facile, infatti, spendere i soldi dei cittadini per iniettare liquidità nel mercato in forma di sussidi e di investimenti improduttivi; difficile è poi chiamare a gran voce l’austerità fiscale se si è stati improvvidi!

 

Non è infatti cosa nuova l’utilizzo del bilancio dello Stato per creare consenso elettorale. Ed è da questa constatazione che forse occorre ripartire: la politica deve rifocalizzarsi su obiettivi strategici (e non più tattici) prendendosi le proprie responsabilità così da poter affrontare senza timore i problemi e non aver remora di mostrare i fianchi (ora scoperti) ai mercati. I quali, prediligono sempre la trasparenza.

 

Ovvero, se tu sei onesto con me, io ti accorderò fiducia. Altrimenti, ti punirò con i mezzi a mia disposizione. Ecco come il mercato – composto tutto da “speculatori” – viene in soccorso dei cittadini nel punire politicanti allo sbaraglio, non in grado di affrontare problemi gravi e strutturali quali sono quelli che impongono oggi soluzioni fuori dagli schemi.