Il tribunale di Cleveland giudicò non ammissibile la gigantesca class action presentata dall’avvocato Josh Cohen contro le 21 banche che più hanno contribuito alla distribuzione dei mutui subprime presso gli abitanti della città. Ovvero, le principali responsabili, secondo l’accusa, di un gigantesco buco di 3,4 miliardi di dollari che ha provocato l’impoverimento generale della città dell’Ohio, un tempo ricco centro industriale del Midwest, oggi, al pari di Detroit, la punta avanzata della crisi Usa: un tasso di disoccupazione dell’11,9%, che non tiene conto dell’esercito dei jobless che hanno rinunciato a iscriversi nelle liste di disoccupazione.
Tra di loro figurano le vittime dei subprime, che nel 2005 rappresentavano più del 60% dei mutui concessi alla popolazione. Il crollo dei prezzi del mercato immobiliare, combinato con il collasso dell’economia, ha fatto sì che quattro cittadini su cinque non siano più stati in grado, dal 2007 in poi, di far fronte alle rate dei mutui. E così migliaia di cittadini di Cleveland hanno perduto la casa, altri vivono sotto l’incubo dell’arrivo del funzionario della banca: in tutto 100 mila famiglie, confinate in quartieri dove, causa il calo delle entrate del comune, ormai mancano i servizi essenziali.
Di chi la colpa? Secondo il giudice di Cleveland il legame tra i big di Wall Street, Citigroup, Goldman Sachs, Bank of America e così via, e la recessione è “troppo indiretto” per consentire un’azione legale. La decisione del tribunale non ha però impedito a Jean Stephane Bron, un regista svizzero, di dar vita a un processo virtuale attraverso un film-documentario “Cleveland contro Wall Street” in cui si confrontano accusa e difesa (interpretati da protagonisti “veri”) secondo le regole della giustizia Usa.
Il film ha fatto il suo esordio nelle sale francesi il 18 agosto scorso. E, si spera (ma, ahimè, è lecito dubitarne) che approdi al più presto nei cinema italiani. Per più motivi. Innanzitutto, perché non si tratta di un generico documento d’accusa contro la voracità del capitalismo e delle banche, bensì di un’opera che offre largo spazio anche alla difesa del sistema.
Keith Fisher, legale delle banche, illustra con dovizia di argomenti come, alla base del fenomeno subprime, ci fosse il mandato politico della presidenza Usa, convinta che la stabilità del sistema dipendesse dal successo della “ownership society”, cioè di un sistema basato sulla larga diffusione della proprietà immobiliare. Una politica che ha trovato ampio consenso anche nel fronte democratico che, anzi, ha spinto le banche a ridurre in maniera significativa le garanzie chieste ai contraenti.
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Certo, queste osservazioni non assolvono le banche che hanno creato un meccanismo infernale per alimentare una pioggia di profitti per poi spalmare i rischi in tutto il pianeta. Ma la lezione resta comunque preziosa: la demagogia, l’apparente “buonismo” spesso nasconde trappole mortali per i più deboli. Così come il cinismo che si annida dietro certa scienza giuridica. Non è difficile, per il legale della banca, dimostrare che tutti i rischi impliciti nel subprime erano ben spiegati nei voluminosi prospetti che nessuno, a partire dai contraenti, ha letto.
Ma la lezione di “Cleveland contro Wall Street” è utile soprattutto per un’altra elementare ragione: la crisi è tutt’altro che finita. Fino a oggi, ha annunciato il sottosegretario al Tesoro Tim Geithner, sono 2,8 milioni le case confiscate dal sistema bancario. Ma la cifra è destinata a salire a 4,5 milioni entro la fine dell’anno. Il tasso dei fallimenti familiari, pari al 3,3% al momento dell’insediamento di Obama, è salito al 9,4%, mentre i prezzi del mercato immobiliari sono in media sotto del 30% rispetto al 2006.
Ma le medie, si sa, spesso non rendono giustizia al dramma delle persone. Milioni di essere umani costretti a cambiare tenore, ma anche a modificare il proprio sistema di valori. Milioni di americani obbligati, dalla sorte, a prender atto che, il più delle volte, la cosa più conveniente da fare è quella di non pagare quanto dovuto al sistema bancario ma attendere con pazienza l’ora del proprio sfratto che, forse, non arriverà mai. Ci sono Stati, vedi la California o il Texas, in cui la banca può agire per conto proprio, di fronte all’insolvenza. Altri, come la Florida o New York, in cui è necessario attendere la pronuncia del giudice che, ormai, avviene in tempi all’italiana: 519 giorni a Miami per eseguire il foreclosure, addirittura 561 a New York.
E le cose, mentre l’amministrazione Usa è costretta a intervenire di nuovo a sostegno delle agenzie federali Freddie Mac e Fannie Mae (unico sostegno al mutuo sostenibile), sembrano destinate a peggiorare. Insomma, per evitare che “Cleveland contro Wall Street” non sia che il prologo di un processo ben più radicale al sistema occorrono gesti politici forti che Washington, da sola, non sembra in grado di fare visto lo stato delle finanze pubbliche americane. Ma che sono necessari: la finanza può e deve tornare al servizio dell’essere umano, ci dimostra il processo virtuale di Cleveland.