Per gli intrepidi banchieri che non hanno rinunciato al Blackberry neppure a Ferragosto, le meritate vacanze potrebbero aver preso una brutta piega. Il terribile apparecchio, incautamente infilato nel borsone da spiaggia, ha cominciato a vibrare e a suonare, insomma a richiamare l’attenzione. Per quegli sprovveduti che lo hanno recuperato, stipato alla rinfusa tra le creme a protezione totale e i racchettoni, il cielo è subito apparso meno blu. A coprire il sole, una nuvola d’oltreoceano, il preavviso di un probabile uragano dal nome poco rassicurante: disoccupazione Usa.
Con l’ultimo filo di batteria rimasto, i Blackberry hanno rilanciato in un tam-tam furioso il quiz su cui si arrovellavano i banchieri sotto l’ombrellone. Un quiz che in poco tempo è divenuto un vero rompicapo: “Siamo usciti dalla crisi del 2007?”.
La domanda era stata archiviata con un “sì” frettoloso e pre-vacanziero, seguito da un più prudente “forse”, cautela suggerita dalla turbolenza di inizio agosto. Questa volta, a poche settimane dai risultati semestrali, sulle montagne russe erano finiti i listini europei, titoli finanziari in testa. Con la pubblicazione dei dati di fine luglio, i livelli occupazionali in Usa (-131mila posti) hanno definitivamente archiviato le speranze di una rapida ripartenza.
Come già ampiamente documentato nei precedenti articoli, lo stress test doveva essere, almeno nelle intenzioni dei promotori, una sorta di self-fulfilling prophecy. Una profezia, cioè, che tende ad auto-avverarsi. Ma se per accelerare i tempi di una difficile convalescenza, un medico autorevole può dichiarare un paziente “fuori pericolo” e ottenerne ottimi risultati, nel caso dello stress test il trucchetto si è inceppato sul più bello.
All’annuncio dei risultati, infatti, i mercati hanno semplicemente voltato le spalle, ben sapendo che l’economia globale era all’epoca, ed è ancora, lontana da un minimo accenno di ripresa. Ignorato l’incauto ottimismo, molti istituti hanno semplicemente ricominciato a originare nuovi stock di debito, volumi che con stanca rassegnazione sono stati puntualmente cartolarizzati, proprio come prima della crisi.
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Le banche non hanno imparato nulla da questa storia? Si direbbe di no, anche se, come da copione, questa volta la tragedia rischia di ripetersi in farsa. Da tre anni ormai, banche, fondi e assicurazioni si guardano intorno nell’attesa di trovare qualche nuova soluzione. E quando alla fine la montagna ha partorito lo stress-test, gli istituti finanziari hanno semplicemente ripreso il lavoro da dove era stato abbandonato nel 2007. Cosa succederà?
Si direbbe che si ricomincerà a macinare debito. E il modello sarà ancora il celebre OtD, origination to distribution. In pratica, le banche erogheranno finanziamenti, li impacchetteranno in titoli (la cartolarizzazione) e li rivenderanno sul mercato. Niente di nuovo, all’apparenza.
Tuttavia vale la pena dedicare qualche riga al meccanismo che gestisce questo processo di credito. Se per un secondo immaginiamo di scoperchiare un telaio, così da osservare da vicino un ipotetico “motore del credito”, troveremo che il modello OtD è composto in definitiva da tre parti distinte.
Una volta messo in moto il meccanismo, il prestito “alpha” entra innanzitutto nell’attivo dell’istituto erogatore. Qui è contabilizzato secondo i dettami di Basilea e consuma capacità di rischio secondo il rating creditizio assegnatogli dalle agenzie (prima anomalia: il profilo di rischio non è valutato dall’istituto, ma da un soggetto terzo che tuttavia deve risponderne all’erogatore).
Nel secondo passaggio, il credito entra in una vera e propria camera di combustione: attraverso un processo di cartolarizzazione i finanziamenti vengono scomposti e rimpacchettati in titoli che si posizionano nel passivo dell’istituto erogatore. Da qui il rischio del prestito è distribuito sul mercato attraverso un processo di emissione che con un po’ di fantasia può essere paragonato a un tubo di scappamento. In questo terzo passaggio, il titolo passa all’attivo di un altro istituto, acquirente del credito sul mercato.
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Nel passaggio tra il passivo dell’erogatore e l’attivo dell’acquirente si nasconde la seconda, preoccupante, anomalia. Il “motore del credito” ha ripulito il bilancio della banca erogatrice e ha trasferito il credito sul bilancio della banca acquirente. In tutto questo, cosa è successo al rischio del finanziamento? Si è spostato insieme al credito o è rimasto nascosto tra le pieghe del bilancio originario?
Come la crisi del 2007 ha ampiamente dimostrato, il rischio, per quanto in termini legali segua il percorso del credito, sembra depositare i propri semi a ogni passaggio sul bilancio. Innanzitutto, nella banca alla fonte del processo. Incentivata dalla possibilità di cartolarizzare, la banca originaria comincia a erogare migliaia di crediti simili al prestito “alpha” nella totale convinzione che ci sarà sempre un mercato dove distribuire i propri finanziamenti.
Nel passaggio dal passivo dell’erogatore all’attivo dell’acquirente, un secondo, gigantesco, strascico di rischi. Seguendo le indicazioni delle agenzie di rating, la banca acquirente finisce per prendere all’attivo la passività di un altro istituto (quest’osservazione, vera nei fatti, andrebbe approfondita negli aspetti legali, ma questo articolo giungerebbe a quota novanta pagine senza aggiungere niente di fondamentale all’analisi).
Dunque: se i titoli emessi rappresentavano prestiti di alta qualità creditizia (ipotizziamo un rating AA), la banca acquirente contabilizzerà all’attivo un’esposizione AA che a sua volta potrà essere di nuovo cartolarizzata nel “motore di credito” della banca acquirente. Non è irrealistico immaginare tre o quattro processi di ridistribuzione prima che il prestito “alpha” finisca sul bilancio di un hedge fund sottoforma di prodotto sofisticato.
In molti casi, attraverso complicate operazioni – definite in gergo “tranching” – un paniere di prestiti AA origina più di un titolo: una tranche più garantita, che arriva addirittura a ricevere un rating superiore all’originale AA, e una tranche più rischiosa, che sarà rimborsata solo dopo la tranche più senior. In tutto questo, i passivi di alcune banche si sono ingarbugliati in una serie di scambi attivo-passivo di cui è difficile seguire il filo. E, soprattutto, in questo processo, dopo tanta sofisticazione, il prestito realmente concesso è in definitiva una minima porzione degli attivi bancari, silos giganteschi occupati in larga parte dai passivi di altri istituti.
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Quale sarà la prima reazione delle banche quando sarà chiaro che tutto è ricominciato come prima? Questa volta gli istituti non si vorranno far trovare impreparati e cercheranno un sistema per eliminare dai bilanci ogni traccia di rischio. Nel bene o nel male, un sistema per eliminare ogni responsabilità dal bilancio esiste già: il derivato finanziario. Per molti investitori questo termine richiama più di una brutta storia. E a proposito di storia, prima di concludere questa analisi, è necessario fare un breve salto nel passato.
Osaka, XVIII secolo d.C.. Al Dojima Rice Exchange, mercato di scambio del riso, i samurai sono ormai ricchi mercanti, dediti al commercio del riso secondo le leggi, piuttosto blande, dello shogunato. Moneisha Homma è un giovane e rampante samurai, rampollo di importanti possidenti terrieri. Da qui a pochi anni, Moneisha costruirà un impero finanziario basato sulla raccolta capillare di informazioni e sulla gestione del rischio attraverso operazioni in derivati da lui inventati, le cosiddette “ceste vuote”.
Ceste vuote perché i derivati finanziari permettevano di scommettere sul prezzo del riso senza dover scambiare un singolo chicco. Si trattava in definitiva di veri e propri futures sul prezzo del riso. Strumenti utili ai coltivatori, che in questo modo fissavano a inizio stagione il prezzo del raccolto. Strumenti che tuttavia introducevano, come controparte dei coltivatori, un nuovo tipo di compratori: gli speculatori.
Giusto per gli appassionati di aneddotica: fu al mercato di Dojima che si svilupparono i celebri grafici a candele. Si tratta di grafici a barre che ancora oggi, conosciuti appunto come “candele giapponesi”, fanno capolino tra gli schermi dei trader di tutto il mondo.
Sembra proprio che ogni vicenda di derivati debba contenere una morale: giunti a metà del secolo, 110mila ceste vuote erano scambiate sul mercato contro una produzione reale di solo 30mila ceste di riso. Inutile dirlo, il mercato di Dojima crollò in una notte, gettando nel panico i mercanti, i produttori, gli amministratori e il Giappone intero.
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La crisi fu risolta dallo shogunato con mezzi drastici: divieto assoluto di derivati e regole più rigide per il commercio del riso. È difficile affermarlo con precisione, ma secondo alcune ricerche storiche il mercato riprese vigore, sebbene le oscillazioni che in precedenza erano assorbite dalla forte volatilità dei future, restarono incorporate nel prezzo del riso. Insomma, messi al bando gli speculatori, per i coltivatori non fu più possibile eliminare il rischio di una cattiva stagione.
E le banche? Saranno capaci di sostenere il rischio di un ciclo negativo o torneranno a fare incetta di derivati? E i derivati sono davvero l’anima nera della finanza? Questi interrogativi ci devono spingere a seguire con massima attenzione la congiuntura economica che stiamo attraversando. Una prima risposta si dovrà cercare nei bilanci delle banche dove nei prossimi mesi i volumi di debito, aiutati dallo scarso costo del denaro, sono destinati a crescere.
Resta il rompicapo sulla crisi: ne siamo usciti? Difficile azzardare una riposta. Di certo, per rispondere in modo affermativo sarà necessario che i bilanci delle banche non si trasformino in una trimestrale di enigmistica.