Mentre il Meeting di Rimini ieri ha ospitato il presidente dell’Abi Giuseppe Mussari, che ha esposto la sua ricetta per tentare l’uscita dalla crisi, gli ultimi segnali indicano che saranno proprie le banche a rischiare di pagare il prezzo più alto alla prospettata, terza ondata di crisi. A spaventare di più, infatti, è l’allarme lanciato dagli analisti tecnici di Borsa: due giovedì fa, il 12 agosto, sarebbe scattato l’Hindenburg Omen, un indicatore tecnico (che prende il nome dal disastro aereo che coinvolse nel 1937 il dirigibile tedesco LZ 129 Hindenburg) il cui obiettivo è prevedere i crash dei mercati azionari.
È un insieme di parametri che misura la salute del mercato monitorando gli indici della Borsa di Wall Street: quando quei parametri assumono determinati valori, la probabilità che si verifichi un crash dei mercati finanziari è più alta del normale. Negli ultimi 22 anni tutti i grandi crash dei mercati finanziari sono stati anticipati dal verificarsi dell’Hindenburg Omen (dalla crisi del 1987 alla recessione del 1990, dalla crisi asiatica del 1998 al minimo raggiunto dai mercati il 23 gennaio 2008 fino al giugno dello stesso anno, precisamente il 3 e il 17).
Solitamente le brutali flessioni anticipate dall’Hindenburg Omen si concretizzano entro 130 giorni, quindi in questo caso proprio entro la fine dell’anno, quando potrebbero tenersi elezioni anticipate nel nostro paese. A confermare il ritorno dell’Hindenburg Omen (HO) lo scorso 12 agosto, anche due siti finanziari solitamente attenti e ben informati come Zero Hedge e Gold Seek, certi che il livello di incertezza presente alla Borsa di New York parla la lingua di futuri crolli globali. L’Hindenburg Omen scatta quando il 2,2% dei titoli del NYSE Composite Index toccano nuovi picchi al rialzo mentre un altro 2,2% conosce nuovi cali: il minore di questi due numeri deve essere superiore o pari a 69.
Inoltre, un altro segnale di rischio giunge al NYSE 10 attraverso il cosiddetto McClellan Oscillator, un misuratore dell’ampiezza del mercato basato sull’avanzamento e il declino dei titoli, che nel giorno dell’HO deve essere negativo: e così è stato. Inoltre, anche il modello di andamento dell’indice Dow Jones parla chiaramente di curve simili, quasi sovrapponibili, con quelle dei crolli borsistici del 1929 e del 2008. Discorsi da cervelloni finanziari, certo ma assolutamente sulla bocca di tutti gli operatori in questi periodi. La crisi, insomma, è tutt’altro che passata, i dati macro statunitensi lo dicono chiaramente e anche la crisi dell’eurozona rischia di riesplodere tra fine settembre e ottobre. Parlare di elezioni anticipate, in un clima del genere, appare quantomeno irresponsabile.
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I cds sul debito sovrano italiano a cinque anni, dopo aver sfondato quota 180, ora si sono attestati a 181,5 punti base, calando dello 0,49%: il mercato attende, il problema è che al di là dei cds e delle politiche difensive degli investitori, a spaventare sono gli spread sui bonds emessi, in continuo aumento rispetto al benchmark europeo del bund tedesco. Quei rendimenti vanno pagati e si trasformano, di fatto, in nuovo debito pubblico. La situazione non è più seria, è grave.
Basti pensare che il via libera di Bruxelles al piano greco di risanamento non ha minimamente migliorato lo stato di salute dei bond greci, il cui spread sui decennali del debito è salito a 835 punti base rispetto alla controparte tedesca. Vengono trattati, di fatto, ai livelli di emergenza di inizio maggio, prima che Ue e Fmi lanciassero il piano di salvataggio. Se poi l’Hindenburg Omen, ancora una volta, dovesse trovare conferma dei suoi nefasti allarmi, il rischio di crash borsistico potrebbe concretizzarsi anche in un calo del 30%, un crollo generalizzato ma che, ovviamente, vedrebbe l’anello debole dei titoli quotati patire il peggio: nemmeno a dirlo, le azioni dei bancari, ancora sotto scacco dei bad assets nei bilanci, delle liabilities che non si riescono a scaricare e dalla “minaccia” di Basilea 3, un incubo per chi fino a oggi, molto spesso, ha agito sulla leva esattamente come un hedge fund dimenticandosi allegramente la propria missione principale, erogare credito e gestire il risparmio, ciò che fino a oggi ha permesso all’Italia di non andare a fondo.
Capite bene che, in una situazione simile, gli appelli al voto anticipato, gli attacchi ai “formalismi costituzionali” e più in generale un clima di totale instabilità politica in autunno rappresenta non solo una politica suicida ma anche – e soprattutto – il modo migliore per stimolare l’appetito degli investitori e degli speculatori. Anche perché, allargando il quadro della discussione e dell’analisi a livello globale, occorre prendere atto che la Cina ha definitivamente smesso il proprio ruolo di bancomat degli Stati Uniti, tagliando di 100 miliardi di dollari l’ammontare della sua detenzioni di Treasury Bond statunitensi, ora a quota 844 miliardi di dollari.
È ormai una tendenza generale e da due anni a questa parte, non da oggi: Cina, Giappone e Regno Unito hanno comprato il minimo indispensabile di debito americano quest’anno. La Cina ha trovato nuove strade per riciclare il suo surplus commerciale e tenere basso il valore della propria moneta, comprando un ammontare record di bond giapponesi, coreani, thailandesi e latino-americani.
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«Diversificare dovrebbe essere un principio base», stando a quanto dichiarato da Yu Yongding, ex consulente della Banca centrale cinese. E Pechino sta diversificando eccome: compra oro a dismisura, addirittura stringendo accordi con aziende di gestione delle miniere come la Coeur d’Alene in Alaska. Ma non solo: riserve di petrolio e carbone, gas naturale oltre che di metalli per uso industriale. Tutto, pur di non comprare debito americano: per JP Morgan siamo di fronte a «un pregiudizio straordinario», ovvero all’evidenza di una paura irrazionale. Davvero irrazionale, visto che i cittadini americani hanno investito 185 miliardi di dollari in bonds funds quest’anno?
Una cosa è certa, i rendimenti sono da sangue dal naso, come si dice in Inghilterra? I decennali tedeschi sono al 2,27%, quelli giapponesi a livelli deflazionari dello 0,92%, quelli statunitensi sono crollati al 2,6%. E questi rendimenti bassi sono destinati a restare. Per parecchio tempo. Per Albert Edwards di Societe Generale, dobbiamo prepararci a un violente swing di politiche da un estremo all’altro: prima deflazione, poi duro intervento sui tassi per uscire. O, almeno, per cercare di uscirne. Sperando non sia tardi.