Tornato ieri in Italia da Detroit, Sergio Marchionne è sbarcato al Meeting di Rimini. L’amministratore delegato di Fiat ha raccolto applausi e ha anche piacevolmente girato negli stand della Fiera. Ad alcuni ragazzi che lo hanno guidato nella visita della mostra sulla crisi economica, organizzata dalla Fondazione per la Sussidiarietà, ha anche confessato le pesanti ripercussioni patite dal gruppo a causa del calo dei consumi e delle difficoltà delle banche. I giovani volontari gli hanno poi ricordato che, grazie anche all’alleanza con Chrysler le cose hanno preso una piega diversa. Ed è proprio con lo sguardo al futuro che Marchionne ha spiegato alla platea del Meeting il suo progetto “Fabbrica Italia”: una sfida che ha la possibilità di cambiare un intero paese forse troppo ancorato al passato e non solo i destini di una realtà industriale importante come Fiat. Una questione che certo si lega, ma va oltre, alla vicenda dei tre lavoratori di Melfi, come spiega lo stesso Marchionne in questa intervista.



Dottor Marchionne, tutti i riflettori sono puntati su Melfi. Ci può spiegare le ragioni dell’atteggiamento tenuto da Fiat?

Ribadisco che Fiat ha rispettato la legge. La decisione di licenziare i tre dipendenti di Melfi non è stata presa a cuor leggero. L’abbiamo fatto perché svolgiamo il nostro mestiere di imprenditori in maniera molto seria e perché il nostro obiettivo è quello di proteggere la maggioranza dei lavoratori. Abbiamo prove inconfutabili di quello che è successo quel giorno nello stabilimento. Sono stati fatti discorsi sulla dignità dei tre lavoratori, ma non dobbiamo dimenticare che quel giorno c’erano altre persone in fabbrica che stavano lavorando e sono state bloccate. Verso di loro, verso questa maggioranza, abbiamo un obbligo che non avremmo potuto mantenere se non avessimo preso questa decisione. Trovo comunque strana una cosa.



Quale?

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Il nostro comportamento qui in Italia è lo stesso che teniamo come gruppo a livello internazionale. Solo che altrove riceviamo complimenti da tutti, mentre qui in Italia, dove abbiamo circa 80.000 dipendenti, dobbiamo quasi “giocare in difesa” e spiegare le nostre ragioni, le stesse che ci fanno avere successo all’estero. Abbiamo, per esempio, avuto apprezzamenti e riconoscimenti da Obama, da Chrsyler e persino dalla Uaw (United auto workers), uno dei sindacati più forti e organizzati del mondo, che si è impegnato nel risanamento dell’industria americana e si è schierato a favore dei valori e delle procedure di Fiat. E allora mi chiedo: perché questo non avviene in Italia?



 

E ha trovato una qualche risposta a questa domanda?

 

Noto il retaggio di un passato che non ha più importanza. Essendo cresciuto negli anni Sessanta, mi ricordo benissimo i discorsi che venivano fatti dalla sinistra. Ho vissuto, seppur a distanza, anche il ‘68. Erano anni particolari, che però non hanno più a che fare con quelli attuali: è ora di lasciarci alle spalle vecchi schemi che vedono nelle relazioni industriali una lotta tra padroni e operai. Mi spiace vedere delle intenzioni nobili come quelle di Fiat sfruttate e usate per ragioni ideologiche e politiche che non hanno niente a che fare con l’azienda. Fiat è e resta un’impresa metalmeccanica che produce vetture e mezzi di trasporto e vuole farlo con un metodo internazionale, forte, e vuole posizionarsi tra i più grandi produttori del mondo. Quello che stiamo incontrando in questo viaggio è purtroppo qualcosa di straordinariamente negativo. Sembra che nessuno capisca che la vera sfida della nostra azienda è quella di dar la possibilità al sistema italiano di poter competere nel sistema globale.

 

In effetti il progetto Fabbrica Italia sembra quasi illogico: perché investire in un paese dove il costo del lavoro e la produttività sono sfavorevoli rispetto ad altri dove pure siete già presenti?

 

Una scelta razionale totalmente finanziaria o industriale con un impegno simile verso l’Italia – stiamo parlando di 20 miliardi di euro – non l’avrebbe fatta mai nessuno. La Fiat è un’azienda nata 111 anni fa in questo paese e quindi ha radici profondissime in Italia. Come me: sono nato qui, mi considero italiano, sono tornato a lavorare in questo paese e sto cercando di aggiornare un sistema che è diventato ormai anacronistico. E lo sto facendo per il bene del paese. Mi creda, non ho interessi personali, ormai ho 58 anni e ho poco da dover dimostrare alla gente. Quello che faccio ora cerco di farlo per il bene degli altri.

 

Anche dei dipendenti Fiat?

 

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Sì. Non è scontato il fatto che non abbiamo chiesto loro alcun contributo finanziario straordinario, ma che ci sia anzi la possibilità di migliorare la loro situazione. Conosciamo benissimo qual è l’impatto economico di Fiat sulle famiglie italiane e stiamo cercando di fare uno sforzo enorme per aumentare la base solida su cui possono contare, grazie al posto di lavoro, per costruire il proprio futuro e quelle delle generazioni che verranno.

 

Avete bisogno di qualche aiuto per raggiungere questo obiettivo?

 

Non abbiamo chiesto aiuti allo Stato. Questo sforzo ce lo stiamo accollando noi con la nostra capacità. Abbiamo solo chiesto che i nostri dipendenti si associno a questo grande progetto. E la cosa che più mi dispiace è che mi trovo nelle condizioni di doverlo difendere, perché nonostante sia partito con le migliori intenzioni esso viene, come ho già spiegato, erroneamente strumentalizzato. Riconosco però che Cisl e Uil hanno capito cosa c’è in gioco e per questo hanno abbracciato la nostra sfida. Resta la necessità, in generale e non solo per Fiat, di un patto sociale per condividere sacrifici e impegno e dare al sistema-Paese la possibilità di continuare a competere nel mondo.

 

Prima ha richiamato la vocazione internazionale di Fiat. Ma può confermare, come ha detto anche John Elkann, che cuore e mente del gruppo resteranno a Torino?

 

È sempre stato così e lo sarà ancora di più. Il gruppo è grande, siamo cresciuti negli ultimi anni. Abbiamo saputo cogliere opportunità straordinarie di cui però beneficia anche l’intero sistema italiano. Il fatto che siamo riusciti a portare una struttura industriale italiana nel cuore del mercato americano è una cosa pazzesca. In altri tempi non ci sarei mai riuscito. Ci avrei messo una vita intera o forse ci sarebbero voluti un paio di Marchionne per entrare in America e posizionare sul mercato il gruppo Fiat. Cerchiamo di non sottovalutare questo aspetto, oltre al fatto che, considerando anche i dipendenti di Chrylser, un terzo dei lavoratori del gruppo è in Italia.

 

Il settore dell’auto risente molto della congiuntura economica. Dopo una fase retta anche grazie all’aiuto degli incentivi, molto ora dipenderà dalla ripresa economica. Negli Usa però si teme una nuova fase di recessione. Lei cosa si aspetta?

 

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Tutte le ripartenze sono difficili, ma il peggio mi sembra passato. Il mercato americano sta cercando di assorbire l’impatto della crisi immobiliare e finché non saranno eliminati gli ultimi rimasugli della crisi passeremo dei periodi di oscillazione come quelli che osserviamo ultimamente. In ogni caso sono molto più fiducioso per il 2011 rispetto a quanto lo ero per il 2009 e il 2010. I dati di questo trimestre mi fanno anche sperare in un rialzo dei target dell’anno in corso.

 

Avete in mente nuove acquisizioni o alleanze? E cosa dice delle voci su una possibile cessione di Alfa Romeo?

 

Alfa Romeo non è assolutamente in vendita. Per il resto, continuo sempre a guardarmi in giro.

 

(Lorenzo Torrisi)

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