Oggi tentiamo di sfatare un mito consolidato, tramutatosi nel tempo in un comodo alibi per politici e regolatori. Ovvero, che la crisi globale del credito sia figlia della bolla immobiliare legata ai subprime Usa e che l’Europa sia stata vittima innocente del contagio. Balle.
Basta dare un’occhiata al grafico riprodotto qui sotto e pubblicato a pagina 12 dell’ultimo report del Fondo Monetario Internazionale dedicato alla Francia, i nostri cuginetti capitanati dal novello Napoleone Sarkozy e da Christine Lagarde, ministro delle Finanze e grande fustigatrice del sistema anglosassone. Ebbene, tra il 1997 e 2009 la Francia ha registrato la più alta crescita dei prezzi immobiliari, seguita da Spagna (che infatti sta crollando sotto il peso di quella bolla e del debito sovrano) e Italia.
Gli anglosassoni, al confronto, sono stati decisamente più moderati: la bolla Usa è stata domata al confronto di quella europea ed è stata largamente corretta: insomma, l’America l’ha vissuta coma una breve ma violenta purga. Mentre la bolla del Club Med non è stata affatto corretta. Lungi dal voler giustificare la politica di “silly money” imperante durante l’era Greenspan, il fatto chiaro è che i tassi di interessi reali erano più bassi nell’eurozona rispetto agli Usa per la gran parte del boom. La verità è che la stessa percezione di Europa è completamente svincolata dalla realtà della crisi che stiamo ancora affrontando, ragione per cui non capiamo la reale gravità dell’aggregato di liabilities che si pone di fronte al nostro futuro.
Le bolle di debito dell’eurozona, infatti, in fase aggregata sono molto più larghe di quanto appaia se si unisce al nucleo “storico” le bolle di credito immobiliare, quelle sui prestiti corporate (Spagna in testa), i cosiddetti Stati euro-peggers come la Danimarca, i paesi baltici e i Balcani e i cosiddetti dirty-floaters come l’Ungheria e l’Europa dell’est, dove le nazioni de facto operano come stati membri avendo status di “pre-ins”.
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Non si può negare che alla base della crisi ci siano anche le politiche di accumulazione di riserve cinese e asiatica, capaci di deprimere i rendimenti dei bond a livello globale e a portare a una errata prezzatura del credito che permise troppo facilmente alla Grecia di ottenere prestiti in giro per il mondo a 28 punti base più della Germania e alla Spagna di fare lo stesso a 4 punti base sul Bund.
La stessa politica giapponese di tassi zero sul carry trade stata è di fatto responsabile di un massiccio flusso di liquidità negli assets di paesi come Islanda, Ungheria e Gran Bretagna (finiti tutti male). Detto questo, non si può più negare come si continua a fare, che l’Europa non si sia autogenerata la propria bolla quando la Bce ha lasciato crescere il rifornimento di massa monetaria M3 dell’11%, fallendo di fatto il raggiungimento dell’obiettivo inflattivo per oltre un decennio.
Peccato che le elite politiche non sappiano – o più facilmente, non vogliano – capire quanto accaduto anche e soprattutto per loro responsabilità. D’altronde, continuare a incolpare gli americani irresponsabili o gli inglesi avidi è un alibi a cui si rinuncia con grosso disappunto: toccherebbe prendersi le proprie colpe e chiedere scusa, attività che politici e regolatori Ue temono più della peste.
Questo anche perché gli americani fanno errori, anche gravi ma poi sanno ammetterlo e rimettersi in carreggiata. La situazione attuale ne è la riprova con il dato di spesa dei consumatori piatto, gli ordinativi industriali scesi dell’1,2 per cento a giugno e il risparmio personale salito al picco più alto da un anno a questa parte al 6,4% in ossequio all’austerity.
«I proprietari di casa stanno pagando i loro debiti molto rapidamente», conferma Gabriel Stein della Lombard Street Research, secondo cui «con un output gap attorno al 3%, l’America potrebbe entrare in deflazione nel 2011 per la prima volta da quando vengono compiute queste rilevazioni». I rendimenti dei bond del Treasury americano sono crollati al minimo storico e questo ha una ragione: tutti si attendono una nuova ondata di quantitative easing da parte della Fed, il terzo stimolo all’economia tanto avversato dai falchi regionali della Federal Reserve.
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Nella riunione della settimana prossima, quindi, la Fed potrebbe decidere di cambiare strategia e dar vita a un roll over dei bonds comprati durante la crisi del credito invece che lasciarli andare gradualmente a scadenza, comportando un lento spostamento dal debito sul mutuo ai bond del Treasury. La Fed manterrebbe il suo balance sheet fermo a 2,3 trilioni di dollari, un effetto neutrale rispetto alla scelta di aggiungere uno stimolo fresco.
Bernanke lo ha detto chiaro: «Dobbiamo essere molto cauti prima di bloccare gli stimoli». Ha le idee molto chiare al riguardo Tim Congdon dell’International Monetary Research, secondo cui un cambio dei rotta della Fed è necessario oltre che auspicabile poiché, a differenza di quanto fatto dalla Bank of England, la Federal Reserve ha comprato bonds non da fondi pensione, assicurazioni e altri soggetti, ma dalle banche. Questo non ha sortito l’effetto traino per l’economia poiché gli istituti di credito si sono seduti sugli allori del cosiddetto “dead cash”, politico che non ha incrementato i depositi di proprietari di casa e aziende.
Per Congdon, «la via migliore per aiutare davvero l’economia è quella di comprare i bonds direttamente dal pubblico, incrementando la massa monetaria. Se solo comprassero, per dire, 1,5 trilioni di dollari di Treasury a lunga scadenza da istituzioni non bancarie, credo che porterebbero gli Usa fuori dalla trappola della liquidità molto in fretta». Lo faranno? Lo sapremo la prossima settimana. Una cosa è certa: negli Usa, come in Gran Bretagna, si discute di fatti e si prendono decisioni. A Francoforte ci si nasconde dietro gli alibi.