La Russia brucia. Temperature oltre i quaranta gradi stanno mettendo in ginocchio il paese, bruciando terra, steppa, taiga e facendo alzare nuvole di fumo capaci di oscurare il cielo di Mosca e creare enormi disagi al traffico aereo. Ora, anche l’allarme per i siti nucleari minacciati dal fuoco.
Ce ne sarebbe abbastanza per essere preoccupati, ma il peggio, a livello economico, è dato dall’aumento esponenziale del prezzo dei cereali scatenato dalla decisione del premier, Vladimir Putin, di bloccare l’export di grano e altre commodities alimentari. «Quanto sta accadendo è decisamente serio», ha dichiarato Abdolreza Abbassanian, economista della Fao specializzato proprio in granaglie. «La situazione russa è disperata perché ha colto tutti con la difesa abbassata, non stiamo ancora affrontando la situazione di due anni fa, ma c’è il rischio di panico destabilizzante».
Il perché è presto detto: la penuria di riserve di questi alimenti potrebbe dar vita a una fase di “agflazione”, ponendo una sfida molto pesante per le banche centrali. Pensate che stando a un calcolo compiuto dal professor Charles Goodhart della London School of Economics, il prezzo degli alimenti potrebbe far salire di un ulteriore 0,5% il già alto (comparato alla situazione generale) tasso di inflazione britannico, ponendo un serio test alla tolleranza del mercato.
Ma cominciamo con lo spiegare cosa sia l’agflazione: è un neologismo coniato dagli analisti di Merrill Lynch nel 2007-2008 dalla contrazione di “agricolture inflation” , con l’emergere di forti aumenti di prezzo di molti prodotti agricoli. Questa “inflazione agricola” non merita, strettamente parlando, il nome di inflazione, perché l’inflazione è un processo di aumento dei prezzi sostenuto e generalizzato, che riguarda cioè la generalità di beni e servizi. L’agflazione invece è un aumento dei prezzi relativi, cioè dei prezzi dei prodotti agricoli rispetto agli altri beni e servizi.
Questo aumento non si traduce necessariamente nell’inflazione vera e propria: il neologismo è venuto in auge a causa del forte aumento nella domanda di prodotti per l’alimentazione connesso alla continua crescita dei Paesi emergenti, principalmente in Asia, un continente dove si collocano i due Paesi più popolosi del mondo (Cina e India). Questo aumento ha riguardato in primo luogo i cereali, dal grano al riso, ma si è trasmesso presto anche alla carne e ai prodotti lattiero-caseari.
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E questo per due motivi: primo, perché la carne non è altro che “vegetali trasformati” (le mucche sono vegetariane) e quindi i maggiori costi dell’allevamento vanno a premere sui prezzi; il secondo e principale motivo sta nel fatto che cambiano in Asia i modelli nutrizionali, con un maggior consumo di alimenti ad alto contenuto di proteine.
Un altro fattore dell’agflazione sta nella produzione di bio-carburanti. Dati i forti aumenti del petrolio si è creata in molti Paesi, a cominciare dagli Usa, una pressione verso la ricerca di fonti energetiche alternative e molta terra coltivabile è stata destinata alla produzione di etanolo via granoturco: questo ha fatto rincarare il mais, ma anche altri cereali data la sottrazione di terreno alle altre coltivazioni. Come anticipato, non è ancora questa la situazione ma i rischi potenziali sono alti.
Il prezzo del grano ha toccato il suo limite massimo di crescita di 60 cents a 7,86 dollari per bushel (l’unità di misura per i cereali) alla Borsa di Chicago, con effetto domino su tutte le altre granaglie trattate. Il problema è che Putin ha chiaramente parlato di un bando sull’export di grano, mais, orzo e altre granaglie fino alla fine dell’anno, aggiungendo che la Russia deve prima di tutto pensare a calmierare i prezzi degli alimenti nel suo mercato interno e creare riserve. Insomma, il mondo si arrangi.
Comprensibile in una situazione di emergenza come quella che sta vivendo il paese, ma una simile destabilizzazione dei prezzi potrebbe ingolosire la speculazione: cosa che sta già accadendo. Il prezzo del grano è salito del 69% da giugno a oggi, ma è ancora parecchio sotto il picco di 13 dollari per bushel toccato nel 2008. Di una cosa state certi però, in autunno pane, pasta e tutto ciò che ha a che fare con quegli alimenti subirà aumenti sostanziali: in Gran Bretagna Premier Foods ha già annunciato che una confezione di pane in cassetta potrebbe vedere il proprio prezzo aumentare fino al 10%.
A complicare ulteriormente il quadro è l’appello di Putin verso il Kazakistan e la Bielorussia affinché impongano restrizioni all’export come quelle adottate da Mosca in caso le condizioni climatiche pongano il cosiddetto “worst scene scenario” nel mese di agosto: «È una situazione assolutamente senza precedenti quella di un leader che chiede alle nazioni confinanti di adottare misure imposte nella sua», chiosa Abbassanian.
L’Ucraina insiste che il suo export è al sicuro, ma molti analisti temono che cada anch’essa nella trappola dell’emergenza: la cintura del Mar Nero e le steppe dell’Eurasia da sole producono un quarto dell’export mondiale di grano e a oggi le riserve di salvezza sono a 187 milioni di tonnellate, contro i 124 milioni del 2008. È un dato di fatto, comunque, che i futures sul mais sono saliti del 5,8%, quelli sull’avena del 4% e quelli sul riso del 2,8%: i prezzi, quindi, sono destinati ad aumentare.
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E non solo sui beni di diretta trasformazione di queste granaglie, visto che il mercato del cibo è direttamente legato a queste dinamiche e la situazione potrebbe creare ulteriore pressione sul mais e con esso far salire il prezzo per alimentare gli animali e quindi quello della carne. I picchi delle commodities, per natura, possono essere sia deflazionari che inflazionari, dipende dal contesto. Le banche centrali europee e americana, ad esempio, due anni fa mal giudicarono la crisi alimentare, credendo che l’aumento del prezzo di cibo e petrolio fosse l’inizio di una spirale dei prezzi come nel 1970. Nei fatti, la crisi drenò domanda da economie che già stavano scivolando in recessione.
Per Albert Edwards di Societe Generale, «la situazione attuale è più deflazionaria di quanto sembri. Il rischio è che le banche centrali siano scoraggiate dal porre in essere ulteriori misure di quantitative easing, a mio avviso necessarie e che questo incrementi i rischi di una brusca caduta per economia in difficile tentativo di ripresa». E non basta. Putin ha infatti dato luce verde al bando all’export dopo che i metereologi lo hanno messo in guardia sul probabile rischio di nuovi focolai durante l’estate, situazione che vedrebbe il terreno impossibilitato a essere seminato.
Perdere due raccolti potrebbe costringere la Russia a ritirarsi dal mercato dell’export per due anni: Rabobank si attende che l’output di grano della Russia quest’anno crolli da 58 a 45 milioni di tonnellate. Ma il blocco sta già creando un vero e proprio disastro economico in Russia: lo conferma Kirill Podolsky, presidente del gruppo Valars, specializzato in granaglie, secondo cui «questa situazione sarà una catastrofe per coltivatori ed esportatori, abbiamo navi pronte a partire e non sappiamo cosa fare».
Gli unici a gioire, se così si può dire, sono le aziende di granaglie che hanno fissato in anticipo contratti di fornitura e che ora sono state colpite dalla scarsezza di materia prima: imporranno la causa di forza maggiore e sospenderanno i contratti per avvenimenti che vanno al di là della loro volontà e controllo. Per la Fao i paesi più colpiti, nel breve-medio termine saranno quelli a basso reddito che dipendono dalle importazioni, ad esempio Egitto e Pakistan, già colpito quest’ultimo da devastanti inondazioni.
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Giungere a misure di emergenza per garantirsi forniture vitali potrebbe essere la politica di molti Stati e questo creerebbe, oltre che squilibri, rischi per l’ordine e la sicurezza. La speculazione, quella veramente infame che colpisce i generi alimentari, ringrazia sentitamente. Sperando che poi la mossa di Vladimir Putin non sia stata una voluta e conveniente esagerazione del rischio per imporre prezzi e creare dipendenza. Non è certamente così. Ma non stupirebbe nemmeno il contrario. Anche perché, amici miei, l’avidità dell’uomo spesso sa trascendere ogni limite. Sono un mercatista convinto, ma di fronte al cibo, bene primario, occorrerebbe vigilare e regolamentare maggiormente determinati eccessi.
Nel mondo, invece, l’attuale situazione viene studiata non per trovare soluzione ma per fare soldi. A New York e a Londra già si parla di “ag bull market”, ovvero il mercato del toro dell’agricoltura: «Siamo nel piano di un turbo mercato del toro agricolo basato sulla domanda da parte dei mercati emergenti che sta creando una potenziale carenza di cibo a livello mondiale», dichiara Jim Cramer a Cnbc. E questo visto che la domanda sta aumentando anche in Canada e Cina. E allora, sapete com’è, sorgono i dubbi.
Prima del bando alle esportazioni russe, il gigante dei fertilizzanti Potash predisse che la produzione di grano russa sarebbe crollata del 20%, mentre quella canadese addirittura del 23%. In Cina, nonostante l’autosufficienza alimentare sia una priorità governativa, vengono importati il 75% del totale di semi di soia, qualcosa come un milione di tonnellate alla settimana, oltre a un significativo quantitativo di mais per la prima volta dal 1996.
Per gli analisti, comunque, sarà l’India quest’anno a garantirsi la palma dell’importatore alimentare globale. Con un tale incremento della domanda, gli agricoltori saranno costretti a coltivare di più e rendere più produttivo ogni singolo ettaro di terreno e questo farà gioco alle industrie di fertilizzanti: brindano Potash (1,38 dollari di guadagno per azione nel trimestre), Bunge, azienda che commercializza appunto fertilizzanti e Deere, nel campo dell’etanolo. Tra gli istituzionali, tornano a brillare Monsanto e DuPont, che settimana scorsa ha trainato Wall Street con un dividendo record.
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Insomma, titoli pronti a brillare grazie ai roghi (e questo non è certo illegale né immorale, è il libero mercato) ma una cosa è certa, il balzo dei prezzi è immotivato e sproporzionato rispetto ai fondamentali. Primo perché si basa preventivamente sul “worst scene scenario” per la Russia, secondo perché gli ottimi raccolti di grano negli Usa e in Europa sono in grado di compensare gli shock in altre aree. Proprio il mese scorso le Nazioni Unite hanno pubblicato un documento nel quale veniva chiaramente detto che gli stock di grano erano stati riforniti dalla crisi del 2008 ed erano perfettamente in grado di compensare le attuali carenze.
Addirittura, gli stock statunitensi raggiungeranno il livello più alto da 23 anni a questa parte dopo il raccolto di quest’anno. Ora l’America, attraverso il CFTC, avrebbe il potere di limitare le posizioni di fondi, banche d’investimento e grandi distributori alimentari, come il gruppo privato statunitense Cargill, grazie alla riforma finanziaria approvata dal Congresso lo scorso mese: in questo modo si porrebbe un freno alle scommesse sui prezzi per evitare volatilità nei movimenti degli stessi.
Lo farà? Ne dubitiamo, in troppi stanno guadagnandoci. E comunque sia, resterebbe comunque aperta la piazza di Londra dove non esistono leggi simili e i limiti sulla contrattazione di futures sono stati dichiarati non necessari dallo scorso governo e della Fsa.
L’Europa, come sempre, tace perché nella migliore delle ipotesi non sa che fare e nella peggiore ma non più peregrina, non si rende nemmeno conto di cosa accade e della gravità della situazione. «Il bull market dell’agricoltura è qui per restare a lungo», sentenzia il guru Jim Cramer. Poco male che qualche milione di persone non potrà godersi il rally perché sarà troppo impegnata a procacciarsi il cibo necessario per non morire.