L’Italia non è un paese per famiglie. Nonostante l’inesorabile rilevanza pubblica del principale ambito sociale di educazione e cura della persona, chi decide di metter su famiglia lo fa a suo rischio e pericolo, perchè la spesa sociale finisce quasi integralmente a invalidi e pensionati. Qualche giorno fa ce lo ha ricordato un documento del ministero dell’Economia: lo Stato spende solo l’1,2% per le politiche famigliari, meno della metà di quel che si spende in Francia o in Germania, un terzo in meno rispetto alla Danimarca.
Ancora una volta ci troviamo a fare i conti con la più clamorosa contraddizione del nostro Paese, in cui la cultura familista, più o meno morale, lucida da decenni la retorica dei politici di ogni colore, salvo poi tradursi in rari e stiracchiati provvedimenti, buoni per qualche campagna elettorale ma di scarsa utilità per chi ogni giorno, 365 giorni all’anno, si prende la briga di fare figli, tirarli su, farli studiare, farli diventare uomini.
Le politiche pubbliche non possono fare molto per restituire ai giovani la voglia e la speranza di metter su famiglia, o per evitare che i matrimoni si rompano con tutte le conseguenze che ne discendono. Quello che possono fare è invece sostenere quelli che la famiglia hanno voglia di metterla in piedi, chi decide di far nascere dei bambini e di farli studiare, chi si tiene in casa persone disabili o anziani non autosufficienti.
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Durante l’incontro che proprio su questa tema si è svolto al Meeting di Rimini venerdì scorso, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha detto una cosa elementare: rilanciare le politiche per la famiglia a partire da una riforma fiscale tarata non più sugli individui ma sul numero di componenti della famiglia (che si tratti di quoziente famigliare o di un sistema di deduzioni importa poco), non è un problema di costo ma di scelta politica. Alemanno ha ricordato come in Francia il quoziente famigliare sia stato introdotto da Charles De Gaulle nei primi anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, epoca in cui lo Stato francese non sembra se la passasse meglio dell’Italia di oggi, almeno sul piano dei conti pubblici e della ricchezza disponibile.
Basterebbe allora una semplice volontà politica per riformare in senso family friendly il nostro sistema fiscale. Il ministro Giulio Tremonti, sempre dal palco di Rimini, ha promesso un fisco a misura di famiglia entro la fine della legislatura. Staremo a vedere.
Per il momento ci accontentiamo di virtuose esperienze locali, che stanno mostrando la presenza di spazi ampi per sperimentazione di politiche amiche della famiglia. Accanto all’ormai consolidata esperienza lombarda, che già dal 1999 ha varato una legge sulla famiglia capace di sviluppare l’associazionismo famigliare e che dal 2008 si è dotata di una legge di riforma delle politiche sociali in cui la famiglia viene rivoluzionariamente definita come “prima unità di offerta” di servizi alla persona, da qualche tempo sono i Comuni a mostrare un attivismo crescente sul tema.
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Dal “quoziente famigliare” attivato a Parma, per rimodulare le tariffe dei servizi, all’esperimento di Magenta, in cui un gruppo di famiglie a basso reddito ha a disposizione un budget utilizzabile per l’acquisto di servizi alla persona, è un fiorire di tentativi innovativi (e talvolta coloriti, come nel caso del “bonus pannolino” annunciato sempre a Rimini dal governatore del Piemonte Roberto Cota). Non è un caso che una cinquantina di Comuni si siano radunati in un network la cui finalità è proprio la diffusione a macchia di leopardo di queste esperienze.
Buone notizie soprattutto in vista della riforma federalista: con più soldi a disposizione potrebbero essere proprio le Regioni e i Comuni a fare quel che lo Stato non ha saputo fare in 65 anni di storia democratica.