Per parlare di quanto è successo, sta succedendo e potrà succedere in Piazza Cordusio a Milano, è bene partire dal 1993 quando quell’indirizzo era il quartier generale (ma non la sede legale, situata invece a Genova) del Credito italiano, una delle tre Bin (Banche di interesse nazionale) controllate dall’Iri, il quale a sua volta faceva capo al Tesoro. Nel 1993, sotto la presidenza di Romano Prodi, l’Iri (è bene ricordarlo: un coacervo di attività finanziarie e industriali) iniziò una politica di privatizzazioni.
A spingerlo su questa strada forzata fu la Grande Europa: si parlava di integrazione, di moneta unica (che sarebbe poi arrivata) e i nostri partner guardavano con irritazione e sospetto alle imprese pubbliche italiane, sempre aiutate con i fondi di dotazione dello stato; una pratica distorsiva della concorrenza. Così per aver porte aperte in Europa, il commissario alla Concorrenza Karel Van Miert, pretese l’avvio di una raffica di privatizzazioni.
Vennero così vendute autostrade, supermercati, aziende alimentari, impianti siderurgici. Un patrimonio industriale di indubbia consistenza costruito in anni (anche se aveva conosciuto, è innegabile, intoppi e scandali) è finito in gran parte all’estero, con grande soddisfazione di quelle banche d’affari (americane e inglesi) che si sono occupate del passaggio proprietario. Quando non sono finite all’estero, ma sono rimasta in mano a gruppi italiani, hanno sostituito un monopolio privato a uno pubblico (caso Autostrade, per esempio).
La stagione delle vendite (portata avanti con decisione soprattutto dalla sinistra, che ama figurar bene la sera sulle terrazze romane parlando un inglese de noantri con i suddetti banchieri anglosassoni) ha ovviamente toccato anche le banche pubbliche. E il Credito Italiano che è stato messo sul mercato con il sistema dell’OPV (offerta pubblica di vendita). E’ diventato una public company, si è via via fuso con altre banche (come era nella moda di quegli anni, in tutto il mondo) e ha raggiunto un assetto di governance nella quale prevalevano le fondazioni bancarie (soprattutto Fondazione Cassa di Verona, Fondazione Cassa di Torino e Carimonte).
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Tutto è andato avanti finché nell’azionariato non sono comparsi altri protagonisti: il fondo sovrano di Abu Dhabi (4,99 per cento) e due soggetti libici (la Banca centrale di Tripoli e la Libyan Investment Authority) titolari di due pacchetti che assieme raggiungono il 7 per cento dell’intero capitale della banca guidata da Alessandro Profumo. Non solo: durante la visita romana del colonnello Gheddafi si è saputo che i libici, molto soddisfatti del loro investimento in Unicredit, vorrebbero salire ancora, almeno fino al 10 per cento.
Qualcuno ha fatto notare che la presenza libica è in contrasto con le regole vigenti perché in Unicredit vige quella del tetto del 5 per cento al possesso di pacchetti azionari. E i libici l’hanno di fatto violata perché nessuno crede che le due istituzioni di Tripoli siano entità separate e autonome, trattandosi di un Paese dove tutto, ma proprio tutto, fa capo sempre e soltanto a Gheddafi. Su questo punto è nata una polemica che ha investito soprattutto il dinamico amministratore delegato, Alessandro Profumo: è accusato di aver favorito l’ingresso dei capitali libici per sottrarsi alla morsa degli altri azionisti (leggi le Fondazioni) che pretendevano (e pretendono) da lui maggior attenzione ai problemi industriali dei territori nei quali la banca opera, piuttosto che alle grandi performance finanziarie apprezzatissime nel mondo anglo-americano cui Profumo si ispira. L’accusa è stata respinta al mittente (“non sono stato io a chiamare i libici”), ma non è bastato a placare le polemiche.
Ora bisogna trovare una quadra. E non sarà facile visto che l’interlocutore, il colonnello, appena viene contraddetto su qualche argomento minaccia di riaprire la porta ai clandestini che dalla Libia si riversano in Europa e finiranno (sono parole sue, pronunciate proprio durante la visita romana) «di farla diventare come l’Africa». Da fare non c’è molto. Si può solo dire (ma è piangere sul latte versato) che il caso Unicredit dimostra ancora una volta come la stagione delle privatizzazioni sia stata nefasta. L’Italia, vista l’assoluta mancanza di grandi capitalisti di successo, avrebbe fatto meglio a mantenere una forte presenza pubblica nella governance di industrie chiave come le banche. Il modello Eni ed Enel, quotate in Borsa, ma con un pacchetto saldamente in mano al Tesoro, funziona. Invece dove sono stati seguiti i principi del capitalismo anglosassone le cose si sono messe male. Come nel caso Unicredit, dove adesso bisogna vedersela con i libici. Bel risultato.