Ma quanto è difficile, di questi tempi, navigare a vista nel mare dell’economia globale. Nemmeno il tempo di digerire le speranze di ripresa, rilanciate dal rapporto Ocse di giugno, ed ecco nuovi segnali di rallentamento, a conforto delle tesi di Nouriel Roubini, l’economista Cassandra che dà per scontato il “double dip”, cioè un nuovo rallentamento dell’economia mondiale dopo la boccata d’ossigeno vissuto da fine 2009 a metà anno. Quel rimbalzo, è la diagnosi dell’economista, è stata la combinazione della ricostituzione delle scorte e degli incentivi messi in opera dagli Usa e da altri Paesi.
Ora, però, i magazzini tornano ad essere pieni mentre si esauriscono gli sgravi fiscali americani. Pure l’effetto Cina, la vera locomotiva del pianeta, sembra destinato a rallentare. Pechino vuole evitare l’impennata dell’inflazione, spinta dall’aumento del prezzo degli alimentari e dal boom del mattone. E una momentanea stretta cinese, dicono gli esperti, non potrà che avere un impatto immediato sull’economia tedesca, la grande beneficiaria dell’aumento dei consumi e degli investimenti del made in China.
Inoltre, sull’Europa, pesano tre incognite: a) la politica di rigore fiscale nell’eurozona, che riduce il potere d’acquisto dei consumatori; b) l’approssimarsi di una stagione ad alto rischio per il debito pubblico dei Paesi del Sud Europa. Tra settembre e novembre, per limitarci all’Italia, sarà necessario sostenere richieste complessive superiori ai cento miliardi; c) il rischio di nuove, brutte sorprese sul fronte bancario. Gli “stress test”, secondo l’analisi del The Wall Street Journal, sono stati troppo blandi. In particolare, gli istituti di credito tedeschi dovrebbero essere oggetto di una terapia d’urto che peserà sul bilancio pubblico di Berlino.
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La lettura complessiva di queste note sparse ci porta a comprendere l’ondata di pessimismo diffusa dall’Ocse: nella media dei Paesi del G7 la crescita su base annua per il periodo luglio-settembre si è fermata attorno all’1,4%, più o meno la metà del 2,7% stimato e sperato nel rapporto di maggio. Anche in caso di ripresa nell’ultimo scorcio dell’anno, non c’è da farsi troppe illusioni: «le incertezze circa la disoccupazione potrebbero mettere un freno all’espansione dei consumi privati che potrebbero essere frenati da ulteriori aggiustamenti nelle spese delle famiglie in seguito al peggioramento dei bilanci che c’è stato nel corso del periodo di recessione».
Non c’è da stare allegri, insomma. Non a caso il presidente Obama, a meno di due mesi dalle elezioni di mid term, ha deciso di dare il via ad una nuova terapia d’urto per aggredire la disoccupazione. Stavolta la terapia si basa su un piano gigantesco di opere pubbliche che, a detta degli scettici, richiederà comunque molto tempo, forse troppo tempo, prima di produrre i suoi effetti. Va detto, però, che non tutte le statistiche vanno nella stessa direzione. Gli ultimi dati in arrivo da Washington segnalano la forte caduta del debito commerciale americano (-14 per cento) a conferma che, pur con qualche difficoltà, il riequilibrio del deficit Usa procede, in parallelo al formidabile aumento del tasso di risparmio delle famiglie.
Terapia obbligata anche se non priva di effetti collaterali spiacevoli: è difficile immaginare un boom dell’economia americana, che rappresenta pur sempre un terzo circa del pianeta, in presenza di un calo dei consumi e dell’aumento dei risparmi. Così non è facile immaginare un’ondata di ottimismo negli States finché sulle famiglie pende la spada di Damocle di altri 4,5 milioni di sfratti oltre ai quasi 4 milioni degli ultimi anni (più sotto la presidenza Obama che quella di Bush).
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Insomma, come sostiene Roubini, più che sperare in una duratura inversione di tendenza, sarà necessario rassegnarsi ad una lunga sequenza di “stop and go”, ovvero di ricadute nella crisi accompagnate da segnali di ripresa: il “develeraging”, cioè il calo dei debiti accumulati dalle famiglie Usa e dagli Stati europei impone sacrifici. La speranza è che le energie scatenate nei Paesi emergenti non si esauriscano, a causa del calo dei consumi in Occidente, ma possano produrre effetti virtuosi, anche a vantaggio dell’export italiano.
A giudicare dall’Ocse, l’anello debole tra i paesi del G 7, è proprio l’Italia che rischia di finire in recessione. Il problema è che la ripresina italiana è dipesa esclusivamente dal rimbalzo delle esportazioni, ma l’economia del Paese non ha fatto passi in avanti sul fronte della produttività e della competitività. Intanto, i gap strutturali del Paese, a partire dalla qualificazione professionale delle nuove leve (conseguenza di un tessuto produttivo povero sul piano tecnologico), si rivelano un handicap drammatico anche nel breve termine: ormai le decisioni di investimento sono sempre più rapide in un mondo più competitivo.
E l’Italia, dove la promessa di 20 miliardi di investimenti nell’auto si è tradotta nello scontro su Pomigliano, non manda segnali positivi. Ha ragione il presidente Napolitano: è l’ora di rilanciare una seria politica industriale, cosa che non si esaurisce con un nuovo ministro. O con il sogno delle Partecipazioni Statali (sarebbe quella la seria politica di cui ha nostalgia il Presidente?). Ma con un’iniezione di libertà che, finora, è rimasta più nelle intenzioni che nei fatti. Nel frattempo, difficile illudersi che una società bloccata su barriere contrapposte possa fare di più che evitare la bancarotta finanziaria o la difesa dei posti di lavoro già garantiti. Come si è fatto, lodevolmente, in questi anni.