Se si fa un’analisi degli attuali problemi interni di Unicredit, la più grande banca italiana, è anche giusto risalire fino alle privatizzazioni del 1993 e allo smantellamento del vecchio sistema italiano. Ma il discorso sulle privatizzazioni di quel periodo deve essere ancora fatto in modo approfondito e ci sono ampie zone d’ombra da chiarire. Tuttavia il problema attuale della banca di piazza Cordusio è legato anche ad altri fattori, che devono tenere conto della crisi economico-finanziaria mondiale e della gestione della banca. Fino al 2007, anno reale dello scoppio della grande crisi, Unicredit ha rappresentato un «modello» e il suo amministratore delegato era considerato un «campione» tra i banchieri. Con la fusione tra Unicredit e Capitalia il grande gruppo, ai valori di Borsa di allora, capitalizzava 80 miliardi di euro.



In più, Unicredit dava la netta impressione di un gruppo transnazionale che superava i confini italiani, con una espansione in Germania (HVB) e nell’Est Europa che faceva inorgoglire. Il modello di Unicredit era quello di una moderna «banca universale» dove regnava l’efficienza e la creazione di valore. In altre parole, il giovane Alessandro Profumo era diventato il miglior interprete del metodo McKinsey, dove la creazione del valore, anche a breve termine, era l’obiettivo principale, così come l’efficienza doveva essere in grado di trasmettersi agli altri settori della banca affetti da inefficienza. In fondo, al di là di discorsi di potere politico-finanziario e di equilibri politici puri, la grande fusione con Capitalia prevedeva che l’efficienza di Unicredit riscattasse la cosiddetta pigrizia di Capitalia.



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In questa visione di «filosofia bancaria», c’era tutto lo spazio per accusare di «eccessiva oculatezza» Mediobanca e colpire, nel 2003, il delfino di Enrico Cuccia, Vincenzo Maranghi. C’era anche un po’ di innovazione che alla fine si è dimostrata «spericolata» in materia di ingegneria finanziaria. La «vecchia guardia» di Mediobanca restava scettica sulla divisione «UBM», dove al posto dei bancari stazionavano i creatori degli algoritmi, i matematici e anche i fisici. Qualcuno, in piazzetta Cuccia, parlava con tono piuttosto risentito di una «fabbrica di derivati». Ma erano tempi dove l’economia tirava e la finanza appariva come una fucina di alchimisti che trasformava tutto in oro. Quindi, all’interno della grande banca, non si lamentava nessuno: non le potenti Fondazioni, non i «grandi soci», non il 70 per cento del popolo dei sottoscrittori di azioni Unicredit.



I problemi sorgono nell’autunno del 2008, quando collassa una banca come Lehman Brothers e Wall Street comincia a traballare pericolosamente, contagiando prima tutta la finanza mondiale e poi l’economia reale, fino a creare pericoli di default per alcuni Stati sovrani. In un giorno di quel brutto autunno 2008, il titolo Unicredit tocca i 68 centesimi di valore, una quota che mette i brividi. Ma il crollo dei valori bancari e industriali è generale e quindi non sembra neppure degno di essere troppo enfatizzato. Poi ci sono una sequenza di notizie che attraversano i vari comitati governance, anche di emergenza, di piazza Cordusio. La situazione nell’Est Europa non è affatto buona e si dice che Unicredit sia rimasta impigliata in qualche incidente.

 

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Salta fuori una coda dell’affare Madoff nella Banca Medici austriaca, dove Unicredt è esposta. Sono episodi che possono definirsi anche marginali, perché Unicredit resta una grande banca e i soci sono in grado di fare un aumento di capitale, di garantire i parametri richiesti senza ricorrere ai “Tremonti bond”. Ma, detto questo, non ci si rende conto che è terminata un’epoca. Si è conclusa la fase capitalista segnata da una marcata “ideologia del mercato” e allo stesso tempo, tra fallimenti e nazionalizzazioni, si fa strada un’idea di banca revisionata rispetto al trionfo della deregulation e del “Gramm Leach-Biley Act” americano approvato nel 1999. C’è l’ex presidente della Fed, Paul Volcker, che propone un contenimento del trading bancario e anche un ritorno alla separazione tra banca commerciale e banca d’affari.

Se si guarda alla cronaca, più che alle giuste e legittime questioni di rappresentanza nel Consiglio di amministrazione, si vede che Unicredit e la stessa persona dell’amministratore delegato vengono messi in discussione al termine del 2008. Cominciano a farsi sentire i capi delle grandi Fondazioni del Nord Est e persino il sindaco di Verona. Si parla di “nervosismo leghista”. Il capitale libico, attraverso due poli (la Lia e la Banca Centrale Libica), comincia a entrare massicciamente nel capitale di Unicredit, fino alla “mini-scalata” di questa estate. A questo punto sembra che anche il presidente di Unicredit, Dieter Rampl, vada fuori dai gangheri, chiedendo chiarimenti che la stessa Banca d’Italia reclama: i libici hanno superato il 7 per cento sfondando la quota del 5 per cento. Chi li ha chiamati? Ci sono state negligenze, connivenze, o solamente ignoranza?

 

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Il problema è ancora in discussione e solo nel Cda del 30 settembre la situazione sarà più chiara. Ma intanto Alessandro Profumo, in questo clima di fibrillazione, sembra “commissariato” dal presidente Rampl e le Fondazioni sono sempre sul piede di guerra. Anche la grande capacità di mediazione di Fabrizio Palenzona, della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, attuale vicepresidente di Unicredit, sembra al momento sottotraccia. Si vedrà nelle prossime settimane. Perché si avvicinano le scadenze di bilancio e le banche devono mettere in conto almeno (così si dice) 13 miliardi di euro di sofferenze per crediti inesigibili delle imprese. Di questi 13 miliardi, Corrado Passera, Ceo di Intesa-San Paolo, ha detto che ben 3 miliardi e 700milioni riguardano la sua banca.

Ora si vorrebbe sapere quanti ne riguardano Unicredit. Anche se è vero che il grande vecchio, Raffaele Mattioli, diceva: “Lei guarda i bilanci della banche? Si vede che è un appassionato di fantascienza”. Ma, a parte i paradossi di Mattioli, si sa che Unicredit è una banca molto solida e che tutti i suoi problemi attuali non creano preoccupazioni drammatiche. Forse c’è solo un punto che si dovrebbe chiarire: se è cambiata la filosofia di fare banca, può anche cambiare la guida di una banca che era fino a pochi anni fa all’avanguardia. Oggi quel tipo di filosofia bancaria sembra superata, se non ripudiata. Insomma, può essere che, in Italia, sia superato il “modello Profumo”.

 

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