Prima che leggiate questo articolo, è meglio premettere qualcosa: sono liberale, liberista e mercatista convinto. Ritengo la speculazione, nella maggior parte dei casi, utile al buon funzionamento dei mercati, una sorta di «pesce spazzino» degli acquari: evita la creazione sistematica di bolle (o ne facilita l’esplosione prima che le dimensioni divengano ingestibili), attacca azioni sopravvalutate riportandole a valori accettabili (o affossandole, Enron è il caso più eclatante), smaschera i bilanci allegri di aziende che capitalizzano come multinazionali pur basandosi su debiti e scatole cinesi. Detto questo, c’è speculazione e speculazione. Quando questa diventa non sistematica ma addirittura strategica per finalità non solo di lucro ma addirittura di re-indirizzamento dei sistemi, politici ed economici, allora si passa alla categoria delle consorterie, dei grand commis.



E’ quello che sta accadendo negli Usa. Non amo Barack Obama e ritengo le sue ultime scelte sbagliate o comunque tiepide rispetto alla difficoltà del momento ma qualcuno, molto potente, non si sta limitando ai giudizi e alle critiche: sta agendo per sabotare, attraverso i mercati, lo status quo. Al mondo, si sa, ci sono circoli molto influenti: l’Aspen Institute, il Council for Foreign Affairs, la Trilaterale, il gruppo Bildenberg. Ma ci sono altri simposi, altrettanto potenti, che non si danno né nomi né denominazioni: peccato che, a conti fatti, decidano per tutti noi. O quasi. Da venticinque anni a questa parte il leggendario stratega di Wall Street, Byron Wien, ora con il Blackstone Group, organizza un summit estivo con i principali player statunitensi per parlare di economia globale e investimenti.



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Quest’anno non è stato diverso dagli altri, poche settimane fa una cinquantina di persone, tra cui dieci miliardari, si sono seduti attorno al tavolo imbandito da Wien e hanno fornito una indicazione netta sul futuro: Obama non va, la situazione economica è «gloomy» (fosca, ndr), occorre un cambio di marcia. «La visione generale è di un quadro di crescita molto lenta nel lungo termine, con un rischio reale di recessione», ha riassunto Wien in un report per gli investitori di Blackstone, secondo cui «l’amministrazione Obama è vista come ostile al business e in grado di scoraggiare sia gli investimenti che la creazione di nuovi posti di lavoro. La compagnie e gli imprenditori sono riluttanti nell’assumere nuovi lavoratori perché non riescono a calcolare con precisioni i costi dell’assicurazione sanitaria voluta dalla rivoluzione obamiana e temono un aumento della pressione fiscale».



I nomi dei partecipanti al summit sono segretissimi ma negli scorsi anni al pranzo organizzato a Long Island hanno sempre partecipato George Soros, Julian Roberson e James Chanos: ovvero, veri e propri pezzi da novanta. Esattamente come il padrone di casa, le cui «Dieci sorprese» erano diventate una lettura obbligata a Wall Street quando lavorava per Morgan Stanley. «Il pessimismo economico da parte dei più abbienti è perfettamente giustificabile, visto che fin dall’inizio della campagna elettorale del 2008 sono stati dipinti come dei villani dal Partito Democratico: anche se sembra che il vento politico stia cambiando, un vero cambiamento è lontano mesi, se non anni», ha dichiarato al riguardo Jim Iuorio della TJM Institutional Services.

 

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Per Wien, «solo pochissimi dei presenti hanno dato possibilità all’indice Standard&Poor’s di raggiungere i 1200 punti l’anno prossimo». E quindi, dove investono i grandi player? Shortano in patria e in Europa e si lanciano sui seguenti segmenti: «Immobili con destinazione d’uso business, terre a destinazione agricola e Africa», queste le tre parole che Wien ha reso noto ai suoi investitori: insomma, scelte non proprio da «regular investors» ma da strateghi. Esattamente come George Soros, l’unico che al pranzo rituale del 2007 parlava a chiare lettere di recessione e mercato dell’orso: aveva ragione lui. Quest’anno, invece, la visione che abbiamo descritto prima è stata condivisa praticamente all’unanimità: «Nessuno, finito il pranzo, è corso a piazzare un ordine», ha chiosato sornione Wien.

Il problema è che quanto deciso da Long Island non è il futuro, è già il presente. La scorsa settimana, infatti, la Banca Mondiale ha avuto il buon cuore di pubblicare il report che si aspettava da mesi e dal quale si desume che gli acquisti di terreni nelle nazioni in via di sviluppo sono aumentati fino a quota 45 milioni di ettari nel 2009, un salto di dieci punti dai livelli dello scorso decennio. Due terzi, nemmeno a dirlo, si sono registrati in Africa, dove le difese delle istituzioni a scalate e acquisizioni sono più deboli o inesistenti a causa anche della corruzione dilagante. E non si tratta, come si potrebbe pensare, di fondi sovrani del Medio Oriente o della Cina ma anche di fondi occidentali – molti dei quali quotati all’AIM di Londra -, decisi come non mai a battere la concorrenza asiatica verso la nuova frontiera: ovvero, il controllo del suolo su cui scommettere «long» dopo aver shortato i subprime statunitensi.

 

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«Le terre agricole produttive sono la scommessa di profitto del futuro, ci ho piazzato sopra un grosso stock di liquidità», ha dichiarato Michael Burry, star di «The Big Short». Ovviamente, non tutti i paesi hanno accettato di buon grado questa colonizzazione finanziaria: il Brasile, ad esempio, ha posto un limite per acro alle acquisizione estere di terreni, soprattutto nel Mato Grosso e in Amazzonia. «Le terre brasiliane devono restare ai brasiliani», ha dichiarato Guillherme Cassel, ministro dell’Agricoltura brasiliano in una sorta di deja vù emergenziale delle politica adottata negli anni Settanta dal regime militare per congelare gli acquisti esteri. Poco, però, per far desistere gente come SinoLatin Capital, Goldman Sachs, Harvest Capital o Berkshire Hathaway, la quale vede infatti il suo boss, Warren Buffett, in fase di esplorazione di una venture da 400 milioni di dollari nel business di soia e zucchero con un partner brasiliano (una sorta di prestanome di lusso per aggirare le nuove norme).

L’Argentina sta pensando a una mossa simile a quella dei vicini brasiliani visto che già il 7 per cento del suo territorio è in mano straniere, a partire dai 900mila ettari di proprietà dei Benetton in Patagonia fino alle holdings di George Soros, il filantropo, di Ted Turner e di Joe Lewis, capace di vietare l’ingresso al pubblico allo straordinario «Lago nascosto». Il perché è presto detto: al di là dell’investimento nei futuri granai mondiali, il business attuale per i paesi a grande attività industriale come la Cina è quello di scaricare altrove i costi ambientali della loro crescita a dismisura: le società industriali o «di transizione», come le definisce la Banca Mondiale, stanno perdendo ogni anno 2,9 milioni di ettari di terreni coltivabili.

 

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Per Cheng Siwei, boss del gigante cinese dell’energia alternativa, i danni ambientali in Cina ammontano al 13,5 per cento del Pil ogni anno, un dato che può far terminare in secondo piano il dato record della crescita. Stessa cosa vale per l’India. Da qui al 2050, d’altronde, la Banca Mondiale stima che la produzione dovrà crescere del 70 per cento per venire in contro a tre priorità: l’aumento delle bocche da sfamare, l’aumento dell’utilizzo di granaglie per l’alimentazione animale da allevamento e la produzione di biocarburante. Non sarà facile, anchè perché le riserve teoriche di terreno sono a quota 445 milioni di ettari a fronte di 1,5 miliardi di ettari di produzione. La scorsa settimana, dieci persone sono morte in Mozambico per i tumulti scoppiati a seguito del bando russo dell’export di grano, il cui prezzo è raddoppiato dal giugno scorso.

Stando alla Banca Mondiale il numero di persone che ogni notte va a dormire con lo stomaco vuoto è salito da 830 milioni a oltre 1 miliardo negli ultimi tre anni. Ovviamente, questi progetti portano con sé anche investimenti, know how e infrastrutture di trasporto e collegamento prima inesistenti, come ad esempio è accaduto sulla costa pacifica del Perù. Il problema è che la terra non è una commodity, nonostante molti politici e grandi players pensino il contrario. Come vedete, io come voi, siamo sempre un passo – se non due – indietro rispetto a chi decide come andranno le cose: forse sarebbe il caso, prima di mettersi a discettare su regolamentazioni bancarie e sesso degli angeli, guardare a quella nuova categoria del business che sia chiama «geo-finanza».

 

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I grandi player stanno giocando su due tavoli: scommettono sul ribasso dei mercati, shortando equity e si lanciano nel grande business del futuro, l’acquisizione di terra, settore precluso al 99 per cento degli investitori. Chi shorta Deutsche Bank fa una scommessa e prende un rischio, chi impone per legge il pessimismo (oltre a creare le condizioni, attraverso l’indottrinamento mediatico dell’opinione pubblica e il finanziamento a chi è pronto a sostenere i loro interessi, per un cambio della decisione politica imposta dalla sovranità popolare, seppur molto limitato nella lobbystica America dei Caucus) per guadagnarci e conquistare – letteralmente – il mondo a costo di saldo, sta decidendo anche il nostro futuro. Non so a voi ma a me non va. Altro che perdere tempo su quella pantomima di Basilea 3…

 

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